L'odiato numero otto. O l'amato numero otto. Non possiamo negare che The Hateful Eight, l'ottava fatica in cabina di regia di Quentin Tarantino, non sia stato un film discusso, capace di dividere l'accoglienza e dare a molti spettatori la sensazione di un regista un po' troppo autoindulgente e ormai senza più quella verve geniale che aveva caratterizzato tutte le sue opere precedenti. Verboso, "lento", poco innovativo: queste sono state alcune delle critiche mosse a quello che, invece, è l'ennesimo tassello di una filmografia sempre coerente con gli stilemi del suo autore, in questo caso capace addirittura di osare e capovolgere le aspettative del pubblico. Che cos'è, in definitiva, The Hateful Eight? Un western claustrofobico? Un giallo sanguinoso? Un horror? Mai come in questo caso si ha la sensazione di assistere a un Tarantino serio, arrabbiato, rancoroso (scopriremo più avanti verso chi), capace di rinunciare a quella patina di divertimento che solitamente inseriva anche - e soprattutto - nelle sequenze più violente.
Guardare The Hateful Eight significa partecipare a un film di Tarantino atipico, maturo e politico. È un film che non rassicura lo spettatore - che comunque troverà elementi tipici del modo di fare cinema del regista -, ma anzi cerca di metterlo alla prova conscio del risultato finale. È infatti nelle ultime sequenze del film (o, per essere più precisi, nell'ultimo capitolo) che si comprende il suo vero scopo: significato del finale The Hateful Eight non sta in una dimensione ludica come lo poteva essere nella carneficina di nazisti nel cinema di Bastardi senza gloria o nell'esplosione di Candyland, il luogo rappresentativo dello schiavismo e del pensiero sudista in Django Unchained.
Una bufera che ci disturba lo sguardo
Un emporio, otto persone chiuse all'interno a causa di una bufera di neve tra sceriffi, cacciatori di taglie, giudici, banditi, messicani, neri, veterani, nordisti e sudisti. Siamo nell'America all'indomani della guerra civile, una guerra interna conclusa ma dove ancora non si sono risulte le profonde fratture di cultura e di pensiero che l'hanno iniziata, racchiusa in uno spazio circoscritto, scarsamente illuminato. L'emporio di Minnie è l'America stessa, di proprietà di una donna e quindi un ventre materno che potrebbe, al termine della tempesta di neve, partorire nuovi uomini americani, nati attraverso una nuova consapevolezza. Basterebbe solo che questi otto personaggi convivessero brevemente nonostante le differenze. Invece, fin da subito tra identità mascherate, scarsa fiducia, divisioni politiche, razzismo e avidità, l'emporio diventa un luogo di tensione, una polveriera pronta ad esplodere. Il fuoco che divamperà, sanguinolento, violentissimo e, per certi versi, anche liberatorio, trasformerà l'emporio di Minnie in un inferno dove tutti i nuovi uomini d'America moriranno vittime di un aborto autoimposto. Il tutto, come solo i grandi cineasti sanno fare, nascosto dietro un velo che, al pari della bufera del film, confonde e devia la nostra attenzione. Se la tempesta di neve all'esterno dell'emporio nasconde il paesaggio del Wyoming e, di conseguenza, obnubila lo sguardo dell'America stessa, così The Hateful Eight ci distrae dai suoi temi preponderanti e ci invita a godere di un whodunit che, via via che si risolve, non scopre solo l'assassino ma la stessa rabbia americana.
Da Le iene a The Hateful Eight, la violenza nel cinema di Tarantino: i momenti (cult) più scioccanti
C'era una volta il western
Venduto come secondo western del regista (dopo Django Unchained di tre anni prima), The Hateful Eight ha tutti gli elementi necessari per intavolare un discorso sulla giustizia di frontiera. Nel terzo capitolo "L'emporio di Minnie" la conversazione con Oswaldo Mobray (Tim Roth) è indicativa di gran parte del senso del film: la giustizia è tale se non c'è passione nell'uccidere altrimenti si trasforma in qualcos'altro. Alla fine del film Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) non riceverà un giusto processo, ma verrà brutalmente assassinata, dopo essere stata colpita più volte, con un cappio al collo mentre il maggiore Marquis Warren e il neo-sceriffo Chris Mannix ridono provando semplice e pura soddisfazione. E Tarantino non si tira indietro: ci mostra tutta la sofferenza di Daisy mentre, a poco a poco, soffoca e muore, e la colonna sonora di Ennio Morricone regala alla sequenza una nota ansiogena e orrorifica. La violenza, nei film di Tarantino, non è mai stata così esplicita e così reale, estranea a quell'elemento ludico che fino a quel momento caratterizzava - e in qualche modo intratteneva e giustificava - il cinema del regista. E, nelle due ore e mezza precedenti, la violenza non ha risparmiato nessuno, neppure un vecchio. Il cinema western è sempre stato un film popolato da personaggi vendicativi e violenti (stiamo parlando sempre di "storie di frontiera" dove gli indiani venivano massacrati), ma si trattava anche di un genere di film a scopo quasi morale: i personaggi erano mossi da un codice d'onore che rispettavano. Certo, non facciamo di tutta l'erba un fascio: nel corso degli anni anche il genere western si è evoluto e ha dato vita a reinterpretazioni del genere come ne Il grande silenzio di Sergio Corbucci, che capovolge proprio il senso dell'onore come motore principale della vita di frontiera. Ma se consideriamo il western americano classico, The Hateful Eight rappresenta un'America marcia, fondata sull'odio e sulla violenza, sulla falsità e sul razzismo dove nessuno è al sicuro e tutti sono personaggi odiosi. Lo stesso sceriffo Mannix, pur dimostrandosi di essere un uomo d'onore, è destinato a morire: alla fine della tempesta, l'America che lo aspetta fuori non è quella degli uomini "giusti".
La finta lettera di Lincoln
Vedere The Hateful Eight durante le giuste proteste del movimento Black Lives Matter (le forze dell'ordine americane, dopo aver saputo che Tarantino aveva partecipato a una di queste manifestazioni, decisero di boicottare il film) di quest'anno è un'esperienza sicuramente poco leggera e accomodante. La piaga del razzismo che ancora oggi, purtroppo, scorre nel sangue degli americani è la conseguenza di una guerra civile di più di un secolo fa mai del tutto risolta. Per questo, nel corso del film, si pone parecchia attenzione alla famigerata lettera di Lincoln che Warren porta con sé. Sembra una lettera vera, scritta dal presidente in persona, ma proprio alla fine scopriamo che è l'ennesima bugia: è un falso scritto da Warren per garantirsi un qualche tipo di protezione. E nel mezzo, quella finta lettera è l'unico barlume di speranza per un cambiamento che non avverrà davvero. "_I tempi cambiano con lentezza, ma con certezza [...]
Perché The Hateful Eight è il film più nichilista e spietato di Quentin Tarantino
Abbiamo ancora di certo molta strada da fare, ma, mano nella mano, io so che arriveremo in fondo_". È un barlume di speranza nell'attesa di una nuova America, meno rancorosa, meno piena d'odio per gli stessi americani? Non possiamo sapere se Tarantino con quel "bel tocco" voglia concludere il film facendo intravedere un raggio di sole. Quello che ci dicono le immagini (e la canzone che accompagna i titoli di coda, There Won't Be Many Coming Home di Roy Orbison e scritta proprio in relazione alla Guerra Civile americana), invece, è Mannix che, con le mani insanguinate, accartoccia la finta lettera e la getta via. I tempi non sono ancora maturi. I valori americani non ritorneranno. E se guardiamo l'America di oggi scopriamo che quella bufera di neve non si è conclusa, ancora pronta a disturbarci lo sguardo.