Portano distintivi, inequivocabili abiti scarlatti le ancelle di Gilead, giovani donne private dei loro diritti e della propria identità per dare figli all'élite di una repubblica che di fatto è una dittatura militare, nata dalle ceneri degli Stati Uniti nel corso una lunga e catastrofica guerra civile e globale. Rosso come il sangue mestruale delle ultime donne fertili di un mondo in cui i nidi sono vuoti per la piaga che ha colpito l'umanità morente; rosso e impetuoso come il sesso, che qui non è più naturale e gioiosa affermazione di vita ma diventa rituale freddo, irregimentato, nauseante, gestito dal sistema come ogni altra cosa; rosso come un segnale d'allarme per gli ubiqui e inesorabili Occhi, spie del regime e feroce braccio armato che non esita a prelevare i "trasgressori" per condurli nelle desolate Colonie, dove il contatto con scorie radioattive e rifiuti tossici causa una morte lenta e terribile.
Rosso come l'orrore di una schiavitù subdola e asettica, di una rabbia silenziosa, di una tensione crescente, e di una ribellione disperata. E inevitabile.
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La terrificante attualità di un classico
Il racconto dell'ancella di Margaret Atwood fu pubblicato ne 1985, vale a dire un anno dopo il fittizio 1984 orwelliano, e con il romanzo distopico di George Orwell l'opera da cui è tratta questa nuova serie di Hulu ha più di un tratto in comune, non ultimo lo status di classico. Qui da noi il libro è fuori catalogo, ma non avrete grosse difficoltà a procurarvi una copia in lingua originale: nei primi mesi della presidenza Trump, infatti, il romanzo è schizzato in cima alle classifiche di vendita, e la scrittice canadese è stata anche protagonista, al grido di "Make Margaret Atwood fiction again", delle marce delle donne a Washington e nelle maggiori città americane.
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Persino per chi lo ha letto in altri tempi, Il racconto dell'ancella, che illustra la stretta del potere sui corpi delle donne e sulla libertà di tutti, era una lucida e preziosa indagine sul ruolo fragile e subordinato della donna nella società. Oggi, con l'attacco in corso ai diritti riproduttivi negli Stati Uniti che induce le femministe a temere un imminente offensiva della Corte Suprema contro la storica sentenza pro-aborto del 1973 Roe vs. Wade, la distopia atwoodiana è l'illuminante e allarmante dimostrazione di ciò che ci attende se ci arrendiamo all'avanzata dell'autoritarismo.
Insieme al racconto di migranti di American Gods, The Handmaid's Tale arriva dunque sugli schermi di tutto il mondo per colpire stomaci e coscienze nel momento in cui è più vitale che questo succeda; c'è qualcosa di agghiacciante e allo stesso tempo di rassicurante in questo formidabile tempismo.
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Offred tra presente e passato
The Handmaid's Tale, creato per Hulu da Bruce Miller (già sceneggiatore di E.R., Everwood, Medium e The 100), abbraccia in pieno la prospettiva del romanzo di Margaret Atwood, narrato in prima persona dalla sua eroina. Così esploriamo il mondo della Repubblica di Gilead da un ovattato e soffocante angolo di mondo: sotto le "ali" del niveo copricapo che scherma dagli sguardi indebiti il volto dell'ancella che porta il nome dell'uomo che la possiede, Of-Fred, "di Fred". La guerra in corso, le letali Colonie, le tribolazioni del resto del pianeta sono fuori campo; sono titoli di giornali che a Offred è proibito leggere, scampoli di verità indistinguibili dalla propaganda.
Ma non è fuori campo il passato. Offred tiene vivo in sé il ricordo di ciò che è stato, della sua Hannah sopra ogni cosa, la prova della sua fertilità che le è stata strappata per essere allevata e cresciuta in vista del ruolo in cui un giorno anche lei sarà costretta a servire Gilead, senza possibilità di scelta come sua madre e come ogni altra donna. Ma anche il ricordo di un mondo diverso, un mondo in cui il nome di Offred era June e June andava dove voleva, faceva l'amore, usciva con le amiche, leggeva libri e ascoltava canzoni. Quel mondo è il nostro e Bruce Miller lo inserisce con grazia e spavalderia al cuore del classico ultratrentenne; e questo serve non solo ad acuire il contrasto tra il passato vivido, sensuale e concreto e il presente asettico e irreale della protagonista, ma anche a dare allo show un'anima vitale, persino ironica, che spiazza in un contesto tanto arido e dolente: un'energia che si accende con l'insurrezione interiore della protagonista a cui abbiamo il privilegio di partecipare.
Tutti i colori di The Handmaid's Tale
Sembra incredibile essere arrivati a questo punto del nostro articolo senza aver fatto menzione di Elizabeth Moss, ma prendete anche questo fatto come una testimonianza della ricchezza di The Handmaid's Tale. Anche tenendo conto di quanto mostrato fino ad ora in ruoli tutt'altro che semplici, ovvero con la quieta frustrazione e determinazione di Peggy Olson in Mad Men e con la forza interiore e l'intimità ferita di Robin Griffin in Top of the Lake, ci sono poche attrici al mondo brave quanto lei a svelare la luce squillante dietro a una superficie opaca e disadorna. E questo la rende una Offred magnetica anche nei momenti più statici e rarefatti delle battute iniziali di The Handmaid's Tale.
Se Moss ci inchioda con l'acciaio dei suoi occhi e con l'autorità di una delle voci-off più duttili e allusive che memoria ricordi, nessuno dei comprimari è meno che incisivo; per il momento ci limitiamo a sbalordirci di fronte all'inedita intensità della Gilmore girl Alexis Bledel e a commuoverci di fronte al calore e all'umanità di Samira Wiley, che abbiamo conosciuto dietro le sbarre di Orange Is the New Black nei panni di Poussay Washington. I contributi tecnici sono parimenti encomiabili e rendono lo show bello visivamente quanto è prezioso e stimolante sul piano narrativo. La fotografia di Colin Watkinson inonda di luce le vie ordinate della città, insegue la tensione che adombra i volti, e si esalta nei cromatismi simbolici, mantelli scarlatti, soffitti azzurri, completi scuri, cuffie bianche; e le musiche di Adam Taylor hanno lo stesso minimalismo ed eleganza suggestiva della regia della semi-esordiente e brillante Reed Morano.
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Prigionieri di Gilead
Ci sono state chiacchiere e levate di scudi nei giorni scorsi dopo che, presentando lo show a Tribeca, Elizabeth Moss e il resto del cast hanno dato la sensazione di voler lasciare scivolare via l'etichetta di "opera femminista" da The Handmaid's Tale. Che le istanze che muovono le ragioni profonde del romanzo coincidano con quelle dello storico e irriducibile movimento per l'uguaglianza e la libertà delle donne è indiscutibile, così come è indiscutibile la natura di riflessione e speculazione politica del racconto, ma possiamo vedere alla base di questo atteggiamento una logica piuttosto concreta: la grandissima parte delle persone equivoca il femminismo, per il suo essere multiforme e in qualche caso contraddittorio ma anche a causa degli attacchi dei conservatori che una corrente che sfida lo status quo inevitabilmente si procaccia. Il femminismo non è, come comunemente si crede, un movimento astioso che avversa gli uomini o che mira a spogliarli del potere per consegnarlo alle donne; si batte per la dignità, la libertà, la piena espressione di tutti all'interno di una società che ci opprime e ci condiziona in maniera sistemica e spesso impercettibile; si chiama "femminismo" solo perché parte dalle donne, così come i suoi alleati movimenti LGBT prendono il nome da ciò che differenza la loro comunità per perseguire i medesimi obiettivi.
The Handmaid's Tale ha il pregio di raccogliere proprio lo spirito inclusivo e intersezionale del femminismo delle giovani generazioni: e lo fa grazie allo sguardo attento e pietoso rivolto a tutti i suoi personaggi, anche quelli caricati di un ruolo negativo. Principalmente alle donne, certo, le ancelle senza nome, madri nella sofferenza e non nel diritto, le domestiche indaffarate che le invidiano, le mogli sterili dei Comandanti che le odiano; ma anche gli uomini, a cominciare dal Comandante Waterford di Joseph Fiennes, che intuisce la persona nel corpo di cui abusa, sospetta l'enormità di ciò che le infligge; il suo autista, in cui l'umiliante condizione ("non ha diritto a una moglie") non ha spento l'empatia; fino al più bieco criminale, uno stupratore, mostrato con la tragica dignità di uomo di fronte alla morte. Grazie a una caratterizzazione equilibrata e inspirata, tutti mostrano gli effetti deleteri del sistema oppressivo e liberticida - la paranoia, l'incertezza, la solitudine, la follia - e incarnano più o meno consapevolmente un anelito di liberazione. Così la storia umanissima, intima e personale dell'ancella ci mostra il destino di una civiltà nella morsa del totalitarismo, ed è come guardare nell'abisso in cui stiamo per precipitare un attimo prima che l'ultimo appiglio a cui afferrarsi sia fuori portata. Non lasciamo la presa.
Movieplayer.it
4.5/5