Da ragazzo prodigio del panorama undeground britannico passando per fenomeno pop internazionale fino a regista di culto con le polveri bagnate e, recentemente, autore compulsivo alla disperata ricerca di una propria ricollocazione. Oggi forse arrivato, con il suo ultimo film, The Covenant,finalmente, ad uno stop per ripensarsi un attimo.
Tutto sommato niente male sino ad ora la carriera di Guy Ritchie, 55 anni a settembre, che è riuscito ad affermarsi in modo veloce al pubblico con una poetica cinematografica prima di tutto immediatamente riconoscibile e "masticabile" da un'ampia fetta di pubblico e quindi applicabile a diverse tipologie di cinema, da quello più comunitario, esile e di nicchia a quello più ambizioso dal punto di vista commerciale.
Un codice linguistico che da incredibilmente efficace dal punto di vista semiotico a, purtroppo, specchietto per le allodole pensato per distrarre da un vuoto contenutistico e da un'assenza di pensiero compiuto a livello formale. Un passaggio probabilmente causato da una progressiva confusione per un uomo dall'ego evidentemente importante e dalla creatività vibrante e la cui natura ha finito con lo sfibrare anche una visione che ha sempre garantito una certa presa. Una serie di scelte sbagliate nel tentativo di coniugare un'ambizione autoriale che è andata crescendo forse oltre il talento e la ricerca spasmodica di un nuovo piazzamento commerciale. Urgeva una pausa di riflessione e The Covenant, anzi Guy Ritchie's Covenant, da noi su Prime Video dal 27 luglio 2023, potrebbe rappresentare proprio questo. Forse.
Una pazza corsa a perdifiato
Guy Ritchie è sempre stato un tipo che non riusciva a rimanere al proprio posto, forse è per questo che adora filmare scene di corsa a perdifiato.
Ha sempre corso, non ha mai avuto pazienza. Fin da quando lasciò la scuola per cominciare a fare film o da quando, per continuare a girarne, aprì una propria casa di produzione. Possiamo andare avanti tutto il giorno volendo, perché correre vuol dire bruciare le tappe, come fare un remake di un film che non c'entra niente con i casi cinematografici (Lock & Stock - Pazzi scatenati e Snatch - Lo strappo) che ti hanno consacrato e poi, come passo successivo al flop totale (che ebbe conseguenza anche sulla sua vita privata, chiedere a Madonna), presentarsi con un film ipermanierista senza capo né coda (anche se su chi scrive ha sempre esercitato un certo fascino).
Certo, a forza di correre si azzecca anche qualcosa, per carità, e a volte anche più di qualcosa, perché la svolta commerciale con Sherlock Holmes è stata pressoché perfetta, sfornando un duo filmico spettacolare.
Poi di nuovo in trappola, anzi, forse nella trappola, in cui si cade perché preda del tentativo di alzare ancora l'asticella. Una cosa che Ritchie, si è capito, è solito fare. In questa occasione la colpa non è stata neanche tutta sua perché per certi franchise c'è la mano della divina sfortuna e basta.
La cosa diventa tragica se nel pantano ci si cade in mezzo a due remake incredibilmente discutibili (anche se profondamente diversi da ogni punto di vista).
Sintomo di un percorso entrato in un loop, che si è cominciato a correre in cerchio, senza trovare più una svolta inedita, in grado di far cambiare scenario, vedere volti nuovi, respirare ampi spazi, respirare oasi verdi e cose varie ed eventuali.
The Gentlemen è il ritorno alle origini nel tentativo di rielaborarsi. Una pausa di riflessione fatta di corsa e quindi un paradosso in sé. Il film fa gridare al ritorno di Ritchie, ma di fatto è uno sparare a salve. Allora, scartata una certezza, si passa a dar voce all'altra cosa che ha sempre animato la poetica del regista: dar voce alle proprie emozioni. In questo caso la rabbia, anzi, la furia.
E quindi torna Jason Statham, il bilanciamento perfetto perché trasposizione sullo schermo di un uomo immobile, ma esplosivo, il classico faro in mezzo alla tempesta, personificazione dell'oggetto fermo anche quando tutto intorno a lui continua a correre. Persino in grado di far funzionare un remake.
Però le solite tentazioni tornano a bussare alla porta e Ritchie cerca di creare un nuovo franchise uguale ad altri, ma provando al mondo che può realizzarlo con la metà dei soldi.
Arriviamo così a The Covenant, che all'apparenza poteva sembrare il solito colpo di testa fatto di corsa. E invece...
Pausa?
Guy Ritchie fa un film che rappresenta, di fatto, la decisione di allontanarsi totalmente dalla sua comfort zone e decidendo di portare sullo schermo una storia vera attraverso un genere molto caro agli anglofoni dall'altra parte dell'oceano rispetto alla sua e ci piazza in mezzo tutta la sua poetica estetica e il suo modo di scrivere.
C'è anche la scena di corsa a perdifiato, ma stavolta è diverso. Stavolta un uomo scappa cercando di portare in salvo se stesso e la sua nuova capacità di riuscire a parlare con il mondo e a se stesso, la tanto sperata nuova via, quella che potrebbe farti uscire dal loop, salvo poi essere salvato proprio da lei, che se lo carica sulle spalle e gli consente di tornare a casa sua. Alla sua comfort zone. Tutto però è cambiato e non si può tornare a vivere la propria vita, non si può andare avanti con la propria carriera se non si torna a recuperare quella capacità, quella nuova strada, quel nuovo modo di vedere il proprio cinema. Già una volta scoperta è difficile lasciarla indietro, se poi gli devi anche la vita ancora di più.
The Covenant è un film ritchiano al 100%, ma molto più maturo, in cui il regista riesce a rimodulare la propria poetica per metterla al servizio di una visione cinematografica e non il contrario, scavalcando così il rischio di nascondercisi dietro (è un'autolimitazione, no?), per parlare di linguaggio, anzi, della necessità di trovare un nuovo linguaggio. Questo avviene attraverso la metafora della figura dell'interprete, qualcuno che non solo si occupa di tradurre, ma di decodificare e poi rielaborare, di creare un ponte tra il mondo esterno e il mondo interno del committente. Un qualcosa per orientarsi, anche all'interno di se stessi. Un qualcosa che però necessita di un'attesa per essere ascoltato, per permettergli di adempiere al suo scopo. Ecco perché The Covenant è una pausa di riflessione. La prima reale della carriera di Guy Ritchie. Sarà quello di cui necessita una carriera passata a correre? Forse.