Come vedrete in questa recensione The Brink - sull'orlo dell'abisso, c'è un momento preciso in cui questo documentario fallisce. Il documentario* segue Steve Bannon, l'ex capo stratega di Trump, un nazionalista, populista e ciarlatano incredibilmente abile ed efficace dal punto di vista comunicativo, nella sua attività di sostegno di alcuni candidati repubblicani nelle elezioni di metà mandato USA del 2018, ma soprattutto nella campagna europea per la creazione di una gigantesca organizzazione populista planetaria.
Le intenzioni della regista: smascherare Bannon
La regista Alison Klayman ha dichiarato apertamente di aver girato questo film con l'intento di "smascherare" Bannon, ma cercare l'origine del fallimento in questa presa di posizione preventiva sarebbe un errore, perché la neutralità non è un elemento fondamentale per un buon documentario, il "Beh io non sono imparziale" di Nanni Moretti nel riuscitissimo Santiago, Italia ne è una dimostrazione chiara.
Chi è Steve Bannon
Steve Bannon è uno di quegli americani che nella vita scelgono di rinnovarsi ciclicamente: prima era un banchiere per la Goldman Sachs, poi un produttore cinematografico e, infine, questa sorta di guru del populismo. Tutte le esperienze che ha vissuto si basano su un processo che ha affinato milione-di-dollaro-spostato dopo milione-di-dollaro-spostato: la manipolazione.
Il punto è che anche qui non pare essergli risultato così complicato manipolare la pur battagliera Klayman. Le riprese avrebbero dovuto mostrare un Bannon esclusivo, quello del dietro le quinte, gli inciampi e le discrepanze, ma per farlo la lente sarebbe dovuta essere avvicinata molto di più. Perché in realtà non si ha mai la sensazione che Bannon sia colto in un momento di reale intimità, mai c'è la percezione di assistere dall'interno a dei momenti di frenesia rivelatori di qualcosa, perché tutto è in controllo, e quando il gioco si fa duro, la macchina da presa non c'è. Il caso più lampante è la cena con alcuni esponenti di partiti populisti europei: vengono mostrate alcune battute iniziali che sembrano più chiacchiere di cortesia, convenevoli, ma quando il discorso sta per passare alla fase operativa, alla regista viene gentilmente chiesto di accomodarsi fuori.
L'occasione persa da Alison Klayman
E però, c'è un momento in cui la missione poteva essere portata a termine, un passaggio dove Alison Klayman poteva apertamente smascherare Bannon e inchiodarlo alle immagini. Quando arrivano i primi risultati delle elezioni di metà mandato, Bannon è molto agitato perché, dice, avverte una brutta sensazione. La regista a quel punto gli chiede come mai avesse preso così tanto a cuore le midterm, se nel 2016 era lo stratega di Trump, ora non ha più rapporti ufficiali con il partito repubblicano, e anzi il presidente USA ha preso le distanze da lui in modo piuttosto netto. Bannon risponde che le motivazioni vanno ricercate nel suo supporto totale alla causa populista e che è la sua assoluta dedizione a questa battaglia politica a giustificare il suo ardore. È una bugia, e lo si capisce immediatamente, eppure Klayman non indaga oltre, non pressa Bannon, non gli chiede quali siano i suoi reali interessi dietro questa campagna politica, non lo inchioda ritraendolo balbettante alla ricerca di una scusa.
Certo, il documentario mostra chiaramente un uomo per cui la menzogna è un comune strumento dialettico, ma non basta, perché grandissima parte del pubblico che andrà a vedere il film questo già lo sa, sa che Bannon è un impostore, ma vorrebbe capire perché lo è, come è arrivato ad esserlo, quali trame si accendono nella sua testa quando c'è da modellare una falsità da dare in pasto alla folla incarognita. E così, tutto sommato, se non si può certo dire che Bannon faccia un figurone, va ammesso che quantomeno appare come un uomo garbato e persino di spessore se confrontato ad altre figure che compaiono nel corso del documentario, tipo quel personaggio che, dissimulando un rutto dopo aver bevuto una soda su un aereo privato, si vanta di essere stato lui ad aver avuto l'idea del muro di separazione tra USA e Messico.
Il senso di The Brink per il pubblico italiano
Va detto però che per il pubblico italiano la visione di The Brink - Sull'orlo dell'abisso può assumere un senso particolare - perché, ovviamente, c'è molta Italia in questa ambiziosa operazione globale - ossia creare un'infrastruttura nazionalista e populista su scala pressoché mondiale. Succede quello che si prova quando si leggono articoli di giornali stranieri sull'Italia, si ottiene una panoramica limpida e spuria da tutti quei piccoli meccanismi di autodifesa che tendiamo a crearci per non vedere quanto di deprecabile abbiamo così nascosto in bella vista ogni giorno. Non poco.
Conclusioni
Quello che la nostra recensione di The Brink - Sull'orlo dell'abisso vuole portare a galla è che la regista Alison Klayman non riesce mai a centrare l'obiettivo che ci si aspetta da un documentario come questo: mostrare una parte inedita della persona narrata. Steve Bannon è sì ripreso da vicino, ma sembra sempre saper mantenere una certa distanza, e la sua figura, contrariamente agli intenti registici, non ne esce poi così male.
Perché ci piace
- Le intenzioni battagliere della regista.
- Il quadro socio-politico che riesce a far emerge, in particolar modo quello italiano.
Cosa non va
- Aver lasciato a Bannon le redini del documentario.
- L'impostazione documentaristica già vista.
- L'incapacità di avvicinarsi realmente a Bannon.