Una serie quasi ininterrotta di vicoli stretti. Un labirinto lunghissimo che fa spartiacque tra due mondi paralleli, vicini e allo stesso tempo lontanissimi. Da una parte una Tokyo caotica dove la folla umana si muove in massa tra clacson e luci accecanti, dall'altra un mondo più quieto e riflessivo, abitato da animali antropomorfi, legato ad una sua mitologia ben radicata. Ad unire queste due realtà sarà il piccolo Kyuta, orfano di madre, ospite involontario del Regno dei Bakemono. Qui verrà accolto da un imponente e burbero spadaccino, il possente Kumatetsu, un orso solitario che lo adotterà come suo unico allievo, infischiandosene di un antico divieto.
In questa terra altra infatti l'essere umano è bandito, perché considerato troppo incline al male, per sua natura affascinato dal buco nero della cattiveria. Contro i pregiudizi, contro le regole e i pericoli dell'indole umana, Kyuta e Kumatetsu impareranno a diventare figli e padri, ad educarsi a vicenda attraverso un rapporto tutt'altro che semplice. È questa la premessa, semplice e quasi archetipica, di The Boy and the Beast, nuova creatura animata del maestro giapponese Mamoru Hosoda; pellicola che per temi e opposizioni non può che ricordare quel capolavoro di Wolf Children, di cui appare un seguito naturale ma meno poetico e riuscito, figlio minore dello stesso padre.
Evolvere, capire, scegliere
Per quanto la premessa di The Boy and The Beast sia classica, e richiami grandi classici come Tarzan e Il libro della giungla, lo sviluppo narrativo scelto da Hosoda mostra un rapporto maestro-allievo piuttosto insolito. Tra il piccolo ma sempre risoluto Kyuta e quella scontrosa belva di Kumatetsu si instaura una curiosa alchimia, fatta soprattutto di scontri, urla, con due caratteri facilmente infiammabili, simili nel seguire sempre l'istinto, ad agire di pancia prima che di testa. Prima di arrivare al loro cuore, Hosoda scrive una doppia storia di formazione piena di sano umorismo; con il bambino che impara a capire cosa voglia diventare a prescindere da chi sia, e il bestiale mentore che non basta più a se stesso.
Il tutto raccontato con la naturalezza della vita e senza retorica, grazie a tante piccole, grandi esperienze condivise a fare da necessario collante tra i due protagonisti, tanto diversi in apparenza, ma affini nel modo impulsivo di affrontare la vita. Il regista inserisce questo rapporto osmotico in un mondo più grande, con una mitologia e un assetto sociale ben definiti; un universo altro, legato ai più classici canoni etici giapponesi, tra valore, sacrificio, altruismo, riflessione e coscienza di sé. Così The Boy and the Beast alterna profonde esplorazioni nell'animo umano e battute spensierate, dilemmi intimi e comicità immediata. Almeno sino allo zoppicante epilogo.
E poi smarrirsi
Sin da una delle sue prime creature televisive, quei Digimon che sfruttarono la scia segnata dai Pokémon, Hosada ha fatto dell'evoluzione, ovvero dell'essere sempre in divenire e in mutazione una costante della sua poetica. Ma questa volta The Boy and the Beast si smarrisce proprio quando il suo protagonista sembra formarsi nel carattere e nelle intenzioni. Se il mondo ferino è dotato di una sua credibilità efficace, paradossalmente il ritorno al mondo reale e il salto nell'ordinario sfilacciano il finale di un film che risulta troppo lungo e che cede all'abusata tentazione della deriva visionaria un po' troppo fine a se stessa. Il cartone animato, esteticamente ispirato soprattutto nelle scene d'azione, fallisce il passaggio da genuino incontro di specie e di età a scontro dicotomico tra forze metafisiche. Ma nonostante questa involuzione che tradisce gli intenti più nobili di un bel cartone animato, si esce dalla sala avendo nel cuore le risate e non le onde energetiche, gli abbracci e non i duelli fluorescenti. Quello che rimane è un inno alla semplicità, delle intenzioni e del racconto. Come se il buono riuscisse a vincere comunque, a partire dagli occhi dello spettatore.
Movieplayer.it
3.0/5