Pochi orpelli: The Bear, sviluppata da Christopher Storer, è una delle migliori serie del 2022. Difficilmente vedrete qualcosa di più riuscito, o meglio, difficilmente riuscirete a staccarvi dal nucleo esplosivo della "The Original Beef of Chicagoland", una paninoteca in cui si alternano gli umori di uno show che mette al centro del (suo) mondo l'arte del montaggio. Sì perché la serie in otto puntate targate FX (ma che trovate su Disney+) è un racconto esplosivo e nevrotico, capace di agganciare lo spettatore con una narrazione che non si sgancia mai dai suoi rifermenti. Quali? Il cibo da una parte, viatico perfetto, e le mani tatuate del protagonista, Carmen "Carmy" Berzetto, interpretato da un grande Jeremy Allen White. Così, nel giro di tre elementi essenziali - un grande protagonista, la colonna sonora e, appunto, il montaggio - nel nostro approfondimento proviamo spiegarvi quanto la serie sia un unicum che smonta il concetto di dramedy per sfociare in un'opera ancora vicina alla realtà.
Perché, come abbiamo scritto nella nostre recensione, The Bear affronta, con la scusa di una cucina da "salvare", tematiche a noi vicinissime come lo stress, il panico e l'ansia generalizzata, che spinge sulle vertebre di una vita che chiede il conto alla fine di ogni maledetta giornata. Il tutto, appunto, travasato sulla figura di Carmy, brillante chef newyorkese che torna a Chicago per provare a gestire la paninoteca di famiglia, dopo il suicidio di suo fratello Michael. Qui, tra sensazioni conflittuali, fornelli unti e uno staff complicato, Carmy mette in scena il suo show in cui la regia dello stesso Storer, alternata a quella di Joanna Calo, delinea il perimetro perfetto di una sceneggiatura che aumenta immediatamente i giri, portandoci in medias res al centro dell'azione.
Il montaggio, quando la serialità si fa (ancora) cinema
Per farlo, come già scritto, Christopher Storer, fa leva sul montaggio di Joanna Naugle e di Adam Epstein, ricalcando lo stesso approccio che può avere il cinema. The Bear, nel suo insieme, è una macchina perfetta costruita su tagli rapidi, su angolazioni precise, su sfumature impreviste. Il movimento frenetico rispecchia l'energia della serie e dei suoi protagonisti, adattando i tempi degli otto episodi. Il montaggio, in questo senso, viene matematicamente sfruttato per tradurre la stessa energia, che sia sprigionata dalla cucina o dalle profonde riflessioni che scaturiscono dalla storia. Ed è su questa strada, arroccata su un'unione di intenti tecnici e narrativi, che The Bear fa implodere da uno spazio ristretto una narrazione che ti spinge verso i punti nevralgici su cui devi posare l'attenzione. Il miglior montaggio è quello che non si vede, e lo show FX riesce a ritagliare il tempo necessario, indugiando o tagliando al momento giusto. Il tutto, sotto il riverbero rumoroso e musicale di Chicago.
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I suoni di Chicago e la faccia (da schiaffi) di Jeremy Allen White
Perché The Bear, di cui possiamo effettivamente carpirne i suoi odori e i suoi nervi a fior di pelle è, come la cucina stessa, una connessione di elementi, che confluiscono in un obiettivo comune. "Abbiamo fatto più lavoro sonoro in questa serie che in altri show", ha detto Joanna Naugle durante un'intervista a Frame.io: "Puoi sentire i suoni della cucina, e abbiamo anche stratificato suoni diversi per l'ambiente. C'è un telefono che squilla e un treno che passa: abbiamo creato una base per il lavoro del team del suono. Puoi sentirti come se fossi parte del trambusto della cucina: era importante assicurarsi che il ritmo rispecchiasse l'immersività di quel mondo". Sopra ai rumori e sopra le vene scoperte di un furente Carmen "Carmy" Berzetto, la splendida colonna sonora di Jeffery Ameen Qaiyum (J.A.Q.), sospesa tra il jazz, l'elettronica e l'ululare delle sirene di Chicago. Un mix pazzesco, ancora più pazzesco se poi la soundtrack alterna brani di Van Morrison, dei Counting Crows, dei R.E.M, e ancora di David Bryne e dei Beach Boys, fino a John Mellencamp, Wilco e John Mayer. Piccolo spoiler: sì, c'è anche Chicago di Sufian Stevens.
E il bello, a sottolineare quanto ogni dettaglio sia vitale per la riuscita finale, è che ogni brano si lega perfettamente agli umori di Carmy, tradotto tanto in maniera fisica quanto celebrare da uno splendido Jeremy Allen White: l'ex Lip Gallagher di Shameless ha un volto incredibile, a metà tra lo stropicciato e il malinconico (con un pizzico di "faccia da schiaffi"), dando alla serie una spessa caratura umana. Il lavoro sui personaggi, infatti, unito ad una regia impeccabile e ad una cinematografia esplosiva, imposta i toni e i temi compressi nei trenta minuti che scandiscono le puntate. Un bilanciamento divergente e strabiliante, che vive in funzione di uno spettacolo a metà strada di uno spettro che alterna divertimento e dramma. Così, alla fine dello show, non possiamo che inchinarci e dire anche noi: "Sì, chef!".