Dopo aver vinto il Premio speciale della giuria alla 73esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, The Bad Batch, secondo film di Ana Lily Amirpour dopo A Girl Walks Home Alone at Night, è arrivato su Netflix il 22 settembre.
Ambientato in un futuro distopico, in cui gli elementi pericolosi sono allontanati dalla società per essere rinchiusi in un'area desertica, il film segue la storia di Arlen, interpretata dalla modella Suki Waterhouse, che viene immediatamente catturata da un gruppo di cannibali, finendo per perdere un braccio e una gamba. Mutilata e sola, la ragazza riesce a raggiungere un'area, in apparenza, sicura controllata da Rockwell (Keanu Reeves), fino a quando non incrocia la propria strada con quella del cannibale Joe (Jason Momoa).
In occasione dell'arrivo di The Bad Batch sulla piattaforma di streaming, ecco la nostra intervista con Ana Lily Amirpour e Suki Waterhouse.
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Sogno americano e famiglia
In The Bad Batch il sogno americano sembra morto per sempre: Ana Lily Armipour non è infatti così entusiasta di questo mito a stelle e strice: "Credo che il sogno americano sia un'idea meravigliosa, tutti i sogni lo sono, ma non credo che la realtà sia perfetta. Amo l'America, ci vivo, sono americana, ma questo non vuol dire che pensi sia perfetta e bellissima. Quindi: cosa penso del sogno americano? Un sogno è una bella idea, ma la realtà è complicata e non è sempre come appare in superficie".
Nel film la protagonista costruisce un nucelo familiare insolito insieme al cannibale interpretato da Momoa e a sua figlia: almeno sulla famiglia la regista ha ancora qualche speranza: "Credo che la famiglia sia una cosa potente e accogliente. Ma ognuno la vive in modo diverso: personalmente sono davvero molto legata ai mei genitori e alla mia famiglia. Siamo iraniani, siamo tutti molto uniti. Credo che la famiglia sia importante, ma il lavoro difficile è capire te stesso, nessuno può sostituirsi a te".
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Donne, regia e scoprire se stessi
Per Ana Lily Amirpour il film è molto personale, ma non bisogna chiederle se è una metafora di quanto sia difficile, da donna, fare la regista in un ambiente ancora molto maschile: "Credo che fare film sia fottutamente difficile: devi essere un pazzo megalomane. Quindi non credo che i miei genitali abbiano qualcosa a che fare con questo. Non ho mai pensato a me stessa in questo modo. Fare un film è davvero molto difficile: per me invece è molto facile. Se credo che le donne guideranno il mondo? Spero di no: sarebbe terribile! Non abbiamo bisogno che le donne guidino il mondo, o che lo facciano gli uomini: ognuno di noi, a livello individuale, deve capire come essere un buon essere umano".