"Dove andiamo, amico?", chiede l'autista del taxi a Noah Solloway, in una sera prenatalizia a New York, nella sequenza finale della terza stagione di The Affair. La domanda del tassista e il conseguente silenzio di Noah, gravido di incertezze, sembrano evocare una metafora fin troppo lapalissiana, riferibile non solo al percorso esistenziale dello scrittore ed ex galeotto interpretato da Dominic West, ma anche alla serie stessa creata nel 2014 da Sarah Treem e Hagai Levi per Showtime. In che direzione sta andando The Affair?
Difficile rispondere a questo interrogativo, così come non è semplice mettere ordine nella confusione tematica, più ancora che narrativa, riscontrata in questo terzo 'capitolo' di un prodotto nato come uno dei più intriganti racconti degli ultimi tempi sul piccolo schermo. Agli entusiasmi della prima stagione, ricompensata due anni fa con il Golden Globe come miglior serie drammatica, aveva fatto seguito una stagione due non impeccabile, ma comunque ricchissima di motivi d'interesse, al netto di qualche passaggio meno convincente. E oggi, purtroppo, dispiace constatare che i difetti intravisti già nella seconda stagione sono andati espandendosi notevolmente in questa terza, nell'arco di dieci episodi in cui non sono mancati forzature e passi falsi. Proviamo a capire, dunque, cosa non ha funzionato nel terzo atto di The Affair.
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La mano che impugnò il coltello
Partiamo dal grande, inesorabile punto debole della nuova stagione della serie: la sua componente thriller. Fin dai suoi esordi, The Affair si era distinto infatti per quella venatura di suspense che connotava i brevi flashforward presenti in ogni episodio, relativi al subplot sulla morte di Scott Lockhart (momento clou del finale della seconda stagione): un tocco di noir in grado di conferire una notevole dose di fascino a un intreccio di natura prettamente psicologica e sentimentale. Archiviata ora, dopo il processo e la condanna di Noah, la vicenda dell'ambigua fine di Scott, gli autori avevano bisogno di un ulteriore spunto giallo da innestare nella terza stagione: ecco dunque il colpo di scena posto in chiusura della première, ovvero la misteriosa pugnalata alla schiena di Noah, nella penombra del suo appartamento, da parte di un fantomatico aggressore.
Tutti gli indizi puntavano su un unico, possibile sospettato: Gunther, possente guardia carceraria che, negli angosciosi flashback della prigione rievocati da Noah, tormentava il protagonista a suon di sadiche vessazioni e di impietose occasioni di scherno. Un antagonista affidato al ghigno sardonico di un redivivo Brendan Fraser, ma relegato appunto a queste fugaci analessi: fin quando, nel penultimo episodio della stagione, non abbiamo assistito al violento faccia a faccia fra lui e Noah. Subito dopo, la fatidica (e un po' telefonata) rivelazione: il colpo di coltello era stato autoinferto dallo stesso Noah, generando la conseguente spirale di paure e di paranoia. La rimozione di questa sorta di tentato suicidio si era accompagnata alla proiezione delle sue ansie sulla figura di Gunther: ma se già il subplot giallo, in questo caso, aveva funzionato malissimo, il colpo di scena risolutivo è parso francamente posticcio e poco convincente.
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Avremo sempre Parigi?
Ancor meno convincente, tuttavia, è la 'coda' illustrata nell'ultima puntata della stagione. A circa un anno di distanza, il Noah depresso, psicotico e con tendenze suicide si è trasformato in un uomo rinato: ha ripreso a scrivere, sembra aver dissipato ogni turbamento e sta trascorrendo un idillio romantico nel cuore di Parigi al fianco della sua nuova compagna, la professoressa Juliette Le Gall. La vivace accademica interpretata da Irène Jacob aveva costituito uno dei punti di forza della première della stagione, come avevamo sottolineato qualche mese fa nella nostra recensione, ma sfortunatamente Juliette non è stata impiegata al massimo del suo potenziale: dopo essere scomparsa quasi del tutto dall'universo della serie, eccola ricomparire in chiusura con un intero segmento (la prima mezz'ora dell'episodio) narrato mediante il suo punto di vista e incentrato sulla morte del marito, stimato luminare di letteratura da tempo malato di Alzheimer, e sul conseguente naufragio della carriera accademica della Le Gall.
Se l'alchimia fra Noah e Juliette (e quindi quella fra West e la Jacob) è innegabile, i retroscena familiari nella vita della professoressa arrivano troppo tardi per meritarsi appieno il nostro coinvolgimento; mentre la 'redenzione' di Noah, che passa attraverso l'attesa riconciliazione con la scapestrata figlia ventenne Whitney (di gran lunga il personaggio più irritante della serie), non basta di certo a regalare i sussulti e l'intensità emotiva che sarebbe stato lecito aspettarsi per il season finale, e a cui The Affair ci aveva abituati in passato. Quello proposto è pertanto un epilogo fin troppo sottotono, la cui intera ora di durata non è esente da prolissità, mentre la pressoché totale assenza dei tre comprimari storici della serie è l'ennesima testimonianza del "tallone d'Achille" di The Affair: la sua progressiva perdita di coesione.
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Il bilancio di una stagione zoppicante
Finora, del resto, la serie di Showtime si era fatta apprezzare innanzitutto per la sua intelligente messa in scena della relatività della percezione e della memoria tramite il 'gioco' dei differenti punti di vista: un assunto smontato ora di puntata in puntata, con la classica narrazione binaria sostituita quasi del tutto da piste narrative parallele, che ormai si intersecano sempre più di radio. E a farne le spese, in questa terza stagione, sono stati senz'altro Alison Bailey (Ruth Wilson) e il suo ex marito Cole Lockhart (Joshua Jackson): ben pochi gli episodi a loro dedicati, ma soprattutto la storia di Alison (il suo precario ruolo di madre, i complessi rapporti con Cole e il loro improvviso ritorno di fiamma) non si è mai 'incastrata' veramente con quella di Noah, salvo rare e forzate parentesi. Insomma, è come se The Affair si fosse biforcato in direzioni via via più lontane e divergenti.
E allora, alla resa dei conti, non stupisce che i segmenti più riusciti della terza stagione siano, ancora una volta, quelli incentrati su Helen Butler, con Maura Tierney che si guadagna senza difficoltà la menzione come most valuable player della serie: la sua Helen, dilaniata dai sensi di colpa, divisa tra l'affetto e il debito di gratitudine nei confronti di Noah e i sentimenti per il suo nuovo partner, Vic Ullah (Omar Metwally), e oppressa da una coppia di genitori annichilenti, è un vortice di emozioni che la Tierney sa rendere in maniera esemplare sullo schermo. Ma non basta a tenere alto il giudizio complessivo su una serie in fase di declino e dominata dalla confusione proprio sul piano della scrittura; mentre la speranza che la quarta stagione regali alle vicende di Noah, Allison, Helen e Cole una degna conclusione al momento rimane piuttosto flebile.
Movieplayer.it
2.5/5