Incurante delle polemiche e deciso a tracciare l'origine del malcostume nazionale, Erik Gandini si proietta col suo documentario nell'Italia di oggi, un incubo creato su misura per aspiranti veline, tronisti dalla muscolatura gonfia e lampadata, scalcinati reduci del Grande Fratello. Col sorriso plastificato di Silvio Berlusconi a benedire la platea, non ancora sazia di tale scempio.
Videocracy - Basta apparire è finalmente uscito nelle sale, accompagnato da una coda di polemiche e di discussioni così lunga, ma così lunga, che persino la coda della Cometa di Halley, a confronto, ci farebbe ben magra figura. Non vi è ora il tempo di recuperare tutte le tappe di avvicinamento, giova però ricordare che tra gli episodi più clamorosi riguardanti il film (a parte la controversa accoglienza riservatagli a Venezia da pubblico e addetti ai lavori) vi è senz'altro la censura del trailer operata dai sempre più asserviti vertici RAI, per motivi che ovviamente hanno molto a che fare con la politica. Cosa potrà mai esserci di così sovversivo e pericoloso in questo lavoro sulla degenerazione del sistema televisivo italiano? Sono in tanti a chiederselo. Nulla, rispondiamo noi. Solo amare constatazioni.
Il documentario di Erik Gandini, emigrato in Svezia diversi anni fa, si limita a proporre uno sguardo esterno, obliquo, sulla nostra disastrata realtà; uno sguardo non diverso da quello innocente del bimbo capace di gridare che l'Imperatore della fiaba è nudo, mentre tutti gli altri si prodigano in inchini e salamelecchi vari. Purtroppo al termine di quest'altra fiaba, così deprimente e oscena, saranno in tanti a sentirsi nudi: l'italo-svedese Erik Gandini non ha rivoluzionato nulla, dal punto di vista del linguaggio cinematografico, né ha infarcito il suo Videocracy di scoop memorabili e tesi da brivido. Ma ha tracciato benissimo le coordinate di quell'abbrutimento socio-antropologico che può guardare alle tv private e all'ascesa politica di Silvio Berlusconi come ad una ipotetica stella polare, insostituibile punto di riferimento per l'evoluzione del (cattivo) gusto nel rattoppato Stivale.
Si parte da frammenti delle primissime trasmissioni televisive proposte sulle reti di Berlusconi, magari più ingenue a livello scenografico, ma già in grado di ottenebrare il giudizio dello spettatore con l'assalto di casalinghe tutte ansiose di svestirsi a comando, una ricetta compatibile con mille altre frivolezze e modelli culturali poveri, ad uso e consumo di persone inesorabilmente frustrate nella vita quotidiana. Sì, perché proseguendo l'indagine con metodo e rigore logico Gandini si proietta nell'Italia di oggi, un incubo creato su misura per aspiranti veline, tronisti dalla muscolatura gonfia e lampadata, scalcinati reduci del Grande Fratello; ma lo fa alternando parabole di personaggi (tristemente) noti a quelle di gente comune, traviata dal miraggio della televisione e portata ormai a pensare che un lavoro in fabbrica sia roba di cui vergognarsi, mentre l'aspirazione a comparire sul piccolo schermo debba assorbire ogni pensiero, perché in fondo apparire è tutto. I provini inseriti nel documentario diventano testimonianza di una umanità derelitta, vilmente presa in giro, ingannata da sordidi burattinai che hanno il loro quartier generale in qualche villa ricca e pacchiana sulla Costa Smeralda.
La forma adottata da Gandini per ricordarci tutto ciò può apparire fin troppo distaccata, sobria, persino poco curata, ma con qualche sapido tocco si riesce comunque ad intervenire sullo squallore del materiale umano chiamato a raccolta, illustrandone il grigiore di fondo senza darlo troppo a vedere agli interessati. Persino i soggetti più mostruosamente cinici appaiono così a loro agio, disposti a svelare le proprie meschine pulsioni. Ci riferiamo a tronfi personaggi come Lele Mora, potentissimo agente televisivo amico dello zar Silvio, o l'immancabile Fabrizio Corona, tanto ansiosi di esibire il loro status di fronte alla videocamera, da non accorgersi del ridicolo insito in un simile stile di vita. Alcune apparizioni assumono pertanto un fosco appeal cinematografico: il Lele Mora di bianco vestito, circondato poi dal bianco accecante di una stanza arredata con sfarzo faraonico, è talmente eccessivo che persino in un film di Coppola faticherebbe a trovare degna collocazione. Ma per tornare al disgusto nudo e crudo sarà sufficiente osservarlo, mentre con sorriso ebete illustra al film-maker suo ospite un cellulare personalizzato con croci celtiche sul display e marcette del Ventennio a mo' di suoneria, da fervente mussoliniano quale egli si dichiara... gente così in altri paesi rischierebbe la galera, ma in un posto come l'Italia che figura oltre la settantesima posizione in quanto a libertà d'informazione (come ci ricordano le didascalie finali) non ci si deve più stupire di nulla.
Eppure ben vengano quelli che ancora si stupiscono, o addirittura si indignano. Nel recente passato si è distinta la Sabina Guzzanti di Viva Zapatero, un appello accorato e ben argomentato in favore della satira e contro le troppe censure di regime. Realizzando La paura con immagini riprese dal telefonino un autore cinematografico e teatrale di spessore come Pippo Delbono ha espresso un ulteriore punto di vista, dichiarando tra le altre cose il proprio sgomento di fronte all'attuale barbarie mediatica. Ed ora è il turno del "nordico" Erik Gandini, con questo incalzante documentario prodotto dalla danese Zentropa Entertainment. Come a dire che sono finiti i tempi di Shakespeare: se prima c'era del marcio in Danimarca, adesso sembra che il marcio sia colato tutto nella nostra penisola!