La verità è che, fin dall'inizio, io so precisamente qual è il tempo, e il momento esatto in cui voi e io arriveremo insieme a destinazione.
Nell'istante in cui Lydia Tár solleva la bacchetta e l'orchestra comincia a suonare, una carrellata laterale sul pubblico ci svela il coup de théâtre che chiude il film, aprendo a nuove interpretazioni tutto l'ultimo atto a cui abbiamo appena assistito. Non a caso il finale di Tár ha polarizzato buona parte dell'attenzione riservata all'acclamato terzo lungometraggio scritto e diretto da Todd Field e candidato a sei premi Oscar: un finale atipico, costruito a partire dalla 'caduta' della protagonista in seguito alle accuse che comprometteranno la sua reputazione e la sua carriera. Introdotta come una delle più stimate compositrici del panorama internazionale, nonché come prima donna a rivestire la carica di direttrice della Berliner Philharmoniker, Lydia Tár non riuscirà a impedire che il proprio prestigio venga sgretolato dalle accuse di aver contribuito al suicidio di una sua giovane ex-pupilla, Krista Taylor.
Realtà o immaginazione? I fantasmi di Lydia Tár
Contraddistinto da una progressiva accelerazione del ritmo, con scene sempre più rapide e incalzanti dopo la studiata 'calma' della prima parte, il film giunge a un punto di svolta quando Lydia Tár, ruolo affidato a una magnetica Cate Blanchett (insignita del Golden Globe e del premio come miglior attrice alla Mostra di Venezia), si vede sottrarre il progetto a cui si era dedicata con tutta se stessa: dirigere la Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler. Il suo ingresso sul palco, con Lydia che avanza rabbiosa verso la macchina da presa, si consuma in una manciata di secondi e con la violenza di una belva: la donna scalza dal podio il collega chiamato a rimpiazzarla, Eliot Kaplan (Mark Strong), per poi avventarsi con furia selvaggia su di lui. Per un personaggio che nelle prime sequenze ci era apparso così misurato, disinvolto, perfettamente padrone di sé e del suo universo, si tratta di una metamorfosi radicale... forse perfino troppo.
Proprio questa repentina esplosione è stata oggetto di diversi tentativi di esegesi; particolarmente acuta e interessante risulta quella elaborata dal critico Dan Kois nel suo eccellente articolo per Slate, intitolato Tár is the most-talked-about movie of the year. So why is everyone talking about it all wrong?. Riferendosi a una serie di dettagli non immediatamente decifrabili, Kois teorizza che, con l'avanzare del racconto, "siamo usciti dal regno del realismo e ci troviamo decisamente nel mondo del soprannaturale. In realtà, Tár non è un film sulla cancel culture. Tár è una sorta di storia di fantasmi, in cui siamo talmente incorporati nella psiche di Lydia Tár che quasi tutto ciò che appare sullo schermo va messo in discussione". L'articolo di Kois approfondisce ulteriormente il discorso; ma che si decida di sposare o meno la tesi del sogno o dell'allucinazione, è innegabile che la seconda parte del film acquisisca una dimensione via via più straniante e angosciosa, corredata di pennellate surreali.
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Immergendosi nel cuore di tenebra
Nella scena successiva alla sua folgorante irruzione sul palco, una Lydia ormai in disgrazia fa ritorno a New York, nella casa di famiglia a Staten Island. Il ritmo narrativo di colpo rallenta: per quasi due minuti la osserviamo commuoversi in silenzio davanti a una registrazione televisiva di Leonard Bernstein, in cui il suo mentore ribadisce che "la musica è movimento, va sempre da qualche parte, spostandosi e cambiando e scorrendo da una nota all'altra; e quel movimento può parlarci di cosa proviamo più di quanto possa fare un milione di parole". Lydia - o piuttosto Linda, come la chiama il fratello - è sconfitta, inesorabilmente; ed è a questo punto che Todd Field apre un altro capitolo del film, con Lydia in procinto di intraprendere una nuova avventura professionale nelle Filippine. La relativa semplicità del suddetto scenario innesca un netto contrasto con la fredda eleganza e la lussuosa impersonalità degli ambienti in cui finora avevamo visto svolgersi la sua ruotine lavorativa.
L'associazione più immediata è quella che vorrebbe equiparare la rovina della protagonista alla realtà asiatica, quasi come una cornice del Purgatorio in cui la talentuosa compositrice sia costretta a scontare il proprio castigo. Ma in un film che fino ad allora ci aveva avvolto nella sua suggestiva, insondabile complessità, tale equivalenza appare eccessivamente schematica, nonché implicitamente razzista (per quanto quest'aspetto potrebbe essere ricondotto alla prospettiva di Lydia stessa). Allora, seguendo il suggerimento di Dan Kois, può valere la pena allontanarsi dal senso letterale di ciò che stiamo osservando per indagarne invece il substrato metaforico, tanto più che anche questo segmento della storia ci riserva qualche elemento bizzarro o indefinibile; inclusa la notazione ironica sui coccodrilli che infestano le acque del fiume, sopravvissuti al "film di Marlon Brando". Che Lydia Tár stia seguendo il medesimo percorso del Colonnello Kurtz di Apocalypse Now?
Tár: un meraviglioso film sull'ambiguità e il potere
"If you want to dance the mask, you must serve the composer"
Poco più tardi, Lydia viene indirizzata presso un centro benessere per ricevere un massaggio ed è posta al cospetto dell'"acquario". Lei, accusata di essere una predatrice, ha di fronte uno stuolo di ragazze a capo chino, fra cui selezionare la propria favorita; e l'unica ad alzare la testa, sfidandola con il proprio sguardo, è la numero cinque, come la sinfonia di Mahler che Lydia non è più riuscita a dirigere. La natura ambigua della scena e la fuga precipitosa della donna, assalita da conati di vomito, riflettono il precario stato psichico di un personaggio che non si è ancora liberato dei fantasmi che lo tormentano (e dei probabili sensi di colpa). E infine, al momento dell'esibizione, l'orchestra filippina di Lydia suona le musiche per il videogame Monster Hunter a beneficio di un pubblico di cosplayer: è l'estremo sberleffo ai danni di un idolo infranto, la sublimazione della "caccia al mostro", per l'appunto, o forse l'epilogo può dirci qualcos'altro?
È difficile non provare compassione per Lydia in queste scene; soprattutto al termine di un'opera che non si adagia neppure per un istante su una visione manichea e che non cede alla tentazione di dipingerla come un banale 'mostro'. E per quanto inusuale sia la sua situazione nell'explicit, per quanto il prestigio di Monster Hunter fatichi a reggere il confronto con quello di Gustav Mahler, magari è possibile cogliere un altro sentimento nell'ultima performance di Lydia: l'abnegazione per il proprio lavoro, un'abnegazione assoluta e priva di cedimenti. Perché la grandezza di una protagonista tanto oscura ed ambigua risiede anche in questo: non venir meno alla sua vocazione, nonostante tutto e a prescindere da quale sia lo spartito. In fondo era stata lei stessa a dircelo, fin dal principio: "Dovete servire il compositore [...], sublimare voi stessi, il vostro ego e sì, la vostra identità". In altre parole: non esiste gloria senza obliterazione.
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