Due cose. La prima: il cinema australiano, negli ultimi anni, sta vivendo una sorta di golden age, trovando ragione e sentimento nelle distribuzioni e produzioni indipendenti. La seconda: oggi è l'horror il genere per eccellenza. Quello che osa, che ci prova, che resta "genere" pur accettando, aprendosi, la commistione. Restano i punti di riferimento - sovrannaturali, come in questo caso - ma intanto si generano nuove idee e nuove suggestioni. Insomma, un genere che cambia per non cambiare. E poi, ci aggiungiamo una terza nota, che poi approfondiremo nel nostro articolo: prima di una buona sceneggiatura, serve creare il caso, spostando l'attenzione del pubblico. Un solo elemento, ma capace di trascinare.
Ecco perché Talk to Me di Danny e Michael Philippou - youtuber, esordienti, ma anche produttori di Babadook - possiamo considerarlo come l'emblema del cinema horror moderno. Esempio di genere, compresi i molti pregi e i molti difetti (qui la nostra recensione). Come detto, e andando con ordine, è il passaparola a fare il film. Un passaparola che spesso nasce sui tavolini dei mercati cinematografici, come il Marché du Film di Cannes, dove è stato accompagnato dai produttori. Sale l'attenzione dei distributori (come successo con Talk to Me), ma serve una controprova: il pubblico. Arriverà prima all'Adelaide Film Festival, e poi al Sundance Film Festival del 2023. Applausi, tripudio e i diritti acchiappati ovviamente da A24 (in Italia grazie a Midnight Factory) che, con il solito guizzo, cominciano a montare il caso, preparando gli spettatori a quello che potrebbe essere "il film horror più inquietante degli ultimi anni".
Talk to Me, tra classico e moderno
Come? Semplice: mettendo al centro della campagna marketing e comunicativa la protagonista del film, ovvero la mano (forse mummificata? Forse solo di gesso?) che permette un tramite diretto con il mondo dei morti, previe frasi magiche "talk to me" e "I let you". Paradigma semplice ed efficace. Parlami, e ti lascio entrare. Un rapporto quasi empatico tra il mondo degli spettri e quello dei vivi, intanto che intorno salgono le risate sghignazzanti di chi crede che sia tutto un gioco. L'ennesimo gioco da riprendere con l'iPhone, facendo diventare virale il terrore più puro. Lo schema è fatto: Talk to Me stravolge il paradigma della solita seduta spiritica per diventare invece suscettibile ai nuovi linguaggi, alle nuove paure, alle nuove inflessioni. Alla psicologia.
Un aggancio a qualcosa di molto classico che racconta però i movimenti moderni, legandosi poi all'universalità di un altro tema, l'elaborazione del lutto. Riassumendo la trama di Talk to Me, troviamo Mia (Sophie Wilde) che, diciamo, non sta vivendo benissimo il secondo anniversario della morte di sua madre. Spinta dal momento, si lascia convincere: durante un party stringe la mano maledetta stabilendo un contatto con i morti. La regola parla chiaro, non più di 90 secondi, altrimenti la possessione diventa permanente. Se il gioco è bello quando dura poco, quello della mano demoniaca diventerà tuttavia virale, infettando l'intero mondo di Mia.
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Un horror virale
Il concetto di viralità, esasperata ed eccessiva, è infatti il vero legame orrorifico di Talk to Me. Lo ripetiamo: la classicità (seduta spiritica) che incontra il contesto contemporaneo (la stessa viralità, e la violenza che può scaturire). Equazione interessante, resa ancora più interessante visto il background da youtubers di Danny e Michael Philippou, che si sono ripromessi di continuare a raccontare l'Australia, iniziando proprio dal prequel, scritto e girato consecutivamente, e da un sequel, Talk 2 Me, già annunciato da A24. Ciononostante, se Talk to Me illumina i pregi degli horror moderni, è anche marcatamente caratterizzato dalle storture. La più vistosa? Manca una vera e propria struttura narrativa forte, in grado di sostenere anche la stasi di una parte centrale che, pericolosamente, sembra bloccarsi, perdendo la creatività, per rifugiarsi nell'archetipo del jumpscare, mostrando troppo invece che suggerendo (come fanno gli horror privi di idee), per poi lasciando aperti gli spiragli di una saga già pianificata.
Talk to Me, prima del grande finale (l'ultimo minuto vale l'intera visione), si arrovella provando a mantenere coerenti entrambi i suoi lati, senza però trovare il giusto punto di vista, e senza sfruttare la coinvolgente parte psicologica, basilare nello storytelling del nuovo cinema horror. Attenzione: non è una critica, ma quasi un dato di fatto. È l'analisi della doppia anima di Talk to Me, la stessa riscontrabile in altri titoli similari, che seguono il filone della new wave horror. Tre esempi: Umma con Sandra Oh, Santa Maud (sempre di A24) e Malignant di James Wan. Ciononostante, se i pro e i contro si fondono, incontrandosi in un limbo (la stessa identica sorte che hanno i morti risvegliati dalla mano), Danny e Michael Philippou hanno svolto un eccellente lavoro comunicativo, attirando l'attenzione attorno ad una potenziale saga, e dimostrando la fertilità dell'emozione più antica di tutte: la paura.