Prima di tornare a immergersi nelle atmosfere di Gomorra - La Serie, Stefano Sollima è tornato a Roma per una parentesi nella sua città d'origine. Partendo da un altro romanzo di Giancarlo De Cataldo, Suburra segue gli incontri e le trame nelle stanze del potere che il titolo simboleggia, stanze che non sono materiali o circoscritte perché disseminate in diversi angoli dell'area della capitale, dal Vaticano al litorale di Ostia. Un film potente e ambizioso, costato poco più di sette milioni di dollari e distribuito in 500 sale dal 14 Ottobre (e lo stesso giorno su Netflix negli Stati Uniti). Un film che vuole raccontare un altro aspetto delle derive del nostro paese, e attraverso di esso della società contemporanea in generale, e che proseguirà il suo cammino anche in TV seguendo le orme dei suoi predecessori Romanzo criminale e Gomorra, sbarcando nel 2017 su Netflix come prima produzione italiana della rete streaming.
Ad accompagnare il film alla presentazione romana è intervenuto il regista Stefano Sollima con due degli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, i produttori di Rai e Cattleya e soprattutto un nutrito numero degli interpreti che hanno dato vita ai personaggi di Suburra, dai protagonisti Claudio Amendola a Pierfrancesco Favino ed Elio Germano, passando per Alessandro Borghi, Giacomo Ferrara, Adamo Dionisi e le due attrici Giulia Elettra Gorietti e Greta Scarano. Le loro sono interpretazioni intense che rappresentano diversi livelli della corruzione di questo paese e riescono a fondere stili e scuole di recitazione diverse nel mettere in scena il potere come lo abbiamo vissuto per anni, confermando la linea di Rai Cinema che, nelle parole di Paolo Del Brocco, "passa per diversi linguaggi ma sempre rispettando il punto di vista dell'autore. Un film di denuncia, ma universale, perché potrebbe essere ambientato in diversi luoghi del mondo."
Un noir metropolitano
È inevitabile pensare a quello che è successo in questi giorni, ma voi avete iniziato a lavorare al film in tempi diversi.
Stefano Sollima: Abbiamo iniziato a lavorare al progetto tre anni fa e credo sia attuale proprio in virtù del genere che abbiamo scelto, che lo rende un racconto più allegorico che realistico. Per questo ci si ritrova oggi così come tra vent'anni, perché è un racconto sul potere che può funzionare sempre.
Si potrebbe considerare una sorta di western?
Stefano Sollima: È una impressione che deriva dall'aver usato dei campi molto ampi, per rappresentare i personaggi inseriti nel contesto del loro mondo. Per me però il genere di riferimento era il gangster movie, un noir metropolitano.
Il film fa parte di un progetto di cinema che vuole rompere degli schemi, come ci si è arrivati?
Riccardo Tozzi: È una strada nuova che già nel 2004 ci era sembrata di poter percorrere quando ci sono state portate le prime bozze di Romanzo criminale che De Cataldo stava ancora scrivendo. Per questo facemmo quel film, e poi la serie e le sue due stagioni, poi A.C.A.B. che aveva già una grande potenza e tracce di quanto visto oggi, fino a Gomorra. Un percorso che culmina in quanto visto oggi, che è la vera maturazione dell'autore e una svolta di cui il cinema italiano ha bisogno. È stato anche un gigantesco sforzo produttivo, perché è difficilissimo fare film del genere nel nostro paese, perché è una pellicola che in qualunque altro paese sarebbe costata il doppio. Un gran lavoro, con settimane di riprese di notte a Roma, effetti speciali e una grande disponibilità di tutto il cast.
Si tratta di un genere che avete aperto e ora rinnovato.
Stefano Rulli: Siamo orgogliosi di aver fatto questi due copioni su Roma. Romanzo criminale è un film romantico nel descrivere quei personaggi, qui invece non ci sono varchi emotivi in cui lo spettatore può immergersi. A noi piace fare il cinema di genere e con Sollima ci siamo trovati a lavorare con un regista che aveva un'idea del genere molto particolare che confermavano la nostra idea. Infatti anche guardando al passato, ad autori come De Palma o il Demme de Il silenzio degli innocenti, non si può più considerare una separazione tra il cinema in senso ampio e quello di genere.
C'è un frangente politico ben preciso, 12 novembre 2011, la caduta del governo Berlusconi. Come avete messo insieme le diverse parti che combaciano con la realtà?
Sandro Petraglia: Pensavamo a un film che potesse essere concreto e scandirlo con dei giorni specifici ci permetteva di ancorarlo alla realtà, di dare un ritmo alla storia ed allo stesso tempo dargli un tono più alto. La caratteristica di Roma è di essere la capitale religiosa del mondo, di avere una politica con caratteristiche proprie e una criminalità sviluppata. Questo fa di Roma un luogo unico in cui girare una storia di questo tipo. Ma non avremmo mai potuto scrivere un film così, senza questo libro, per il suo sguardo spietato e implacabile di un mondo senza nessun eroe. È stata una sfida stilistica nel raccontare il male dall'interno. Una ulteriore sfida è stata di portare questo tipo di storia e questi temi anche al cinema, laddove sono stati ben sviluppati dalla serialità televisiva. Stefano Sollima ha fatto un ottimo lavoro nel raccontare qualcosa di complesso come Roma in sole due ore.
Tra deux ex machina invisibili e "mostri" addormentati
Il personaggio di Amendola è il più normale ma è anche quello che alla fine fa più paura. Di chi è la scelta e quanto i singoli interpreti hanno messo del proprio?
Stefano Sollima: Il vantaggio di raccontare solo personaggi negativi è che ti obbliga a concentrarti sull'aspetto umano dietro ognuno di loro. Personaggi che abbiano un ruolo cattivo per quello che fanno, non per quello che sono. Questo ci ha guidato nel mettere in scena ogni personaggio.
Claudio Amendola: il lavoro con Stefano è stato fin dall'inizio chiaro. Non facile, ma chiaro. Volevamo dare un'umanità a un personaggio terribile. Mi ha fatto togliere qualunque emozione mi apparisse anche per sbaglio sul viso. È un personaggio immobile, che ha una forza nella sua immobilità. Fa paura perché potresti incontrarlo dietro ogni angolo, infatti mi piace anche la scelta del costume un po' anonimo che indossa. È un po' il deus ex machina di Waterfront, eppure passa inosservato.
Pierfrancesco Favino: Per fortuna non credo di aver molto a che fare col mio personaggio. Credo che sia un esempio di un periodo, simboleggia tutti i personaggi guidati da un'ambizione estrema che è figlia di una cultura che nasce trent'anni fa. Uno dei livelli di questo potere è che ciascuno di essi cerca di fare al massimo solo per se stesso. È un aspetto su cui mi sono interrogato, senza giudicare, ma per capire il tema del potere che pervade il film. Mi sono chiesto "cosa sei disposto a vendere per quello che vuoi ottenere?" "E quello che vuoi ottenere cos'è?" "Oggetti, soldi, ma anche solo il riconoscimento di quel potere". È una domanda che costa, ma per fare questo mestiere non posso non pormela. È stata una scelta molto bella quella di prendere un politico di basso profilo, che vuole restare attaccato a qualcosa senza avere nemmeno il carisma o qualità. Non c'è un politico di riferimento a cui mi sono ispirato, per il carattere simbolico che ha. Il fatto che sia una figura di secondo piano è importante per rappresentarlo.
Elio Germano: Nel mio caso si tratta di abiti scomodi anche materialmente, con pantaloni strettissimi e giacche che suscitavano anche l'ironia dei miei colleghi. Siamo partiti dalla costruzione di un immaginario per un personaggio che si è nutrito dell'immagine. È un film che racconta la degenerazione comune di tutti noi, nel cercare di riempirci dell'immagine che cerchiamo di proiettare sugli altri piuttosto che nei rapporti umani. Sono tutti personaggi che si disinteressano da un momento all'altro anche degli affetti per rincorrere il benessere su vari livelli. Il mio era un contrappunto rispetto ai personaggi armati, ma che dimostra quanto una persona può diventare un mostro nel momento in cui il suo stato viene minacciato. Siamo tutti un po' addormentati nella nostra situazione e spesso nemmeno ci rendiamo conto di quello che facciamo per vivere secondo le regole che ci vengono imposte, in un mondo in cui anche la criminalità ha perso la morale.
Che lavoro di casting è stato fatto?
Stefano Sollima: Trovo che ci siano due cose fondamentali in un racconto cinematografico, il testo e gli attori. Non immagino un progetto senza che questi due aspetti siano a punto. Per questo chiedo ai miei collaboratori un lavoro enorme nel fare il cast, che consiste sia nel trovare dei talenti ancora non noti, che altri già conosciuti se adatti alla parte.
Le donne di Suburra
Greta, hai un personaggio particolare in un film che appare molto maschile. Tu rovesci questo punto di vista, come hai vissuto questa opportunità?
Greta Scarano: Quando ho letto la sceneggiatura ero fuori di me perché ho capito subito che il personaggio aveva un potenziale enorme e ottenerlo non è stato facile. Stefano è molto esigente e anche ottenere il ruolo prima di girare il film è stato un lavoro intenso. È un ruolo complesso che mi dava possibilità enormi. Sono stata molto seguita a livello di immagine, con un'attenzione ai dettagli che mi ha permesso di dare il meglio di me ed avere il controllo del personaggio. Con Stefano non puoi sbagliare. Se muovi la pupilla nel modo sbagliato, se ne accorge subito e non ti permette di sbagliare. Ti dà la sensazione di essere al sicuro.
Giulia, tu rappresenti la purezza e l'innocenza con un personaggio che vive un mestiere particolare.
Giulia Elettra Gorietti: Per me è un sogno che si realizza, far parte di un progetto che racconta una società su cui dovremmo riflettere più spesso. Lavorare con questo cast e con Sollima è stata come una scuola e una grande opportunità. La sfida è stata di far uscire fuori questa purezza e ingenuità in un personaggio che fisicamente ne ha molto poca. Lei vende il suo corpo ma non riesce a vendere l'anima, questo mi ha permesso di legarmi a lei ed innamorarmene. In alcuni momenti si trova in una situazione più grande di lei, ma riesce a cavarsela.
Un principe nero, il Numero 8 e l'ombra di Caligari
Alessandro, hai avuto la fortuna di lavorare con Caligari e Sollima che sono gli unici che sanno manipolare il genere per realizzare qualcosa d'altro.
Alessandro Borghi: Mi ci sono trovato a mio agio, nonostante si tratti di due film sulla carta molto diversi. Il mio personaggio è l'opposto di quello di Claudio, dalla parte opposta rispetto alla normalità. Quando abbiamo iniziato a lavorare al look del personaggio ci siamo trovati in una stanza con otto versioni diverse del mio personaggio ed è stata una scena surreale. Il mio personaggio racconta un tipo di male diverso da quello degli altri personaggio, che non ha a che fare con le parole e le trame. Numero 8 è del tutto fuori controllo, a suo modo un idealista, che immagina questo Waterfront come un'opportunità, un obbiettivo per se. Ha anche un lato romantico, ha Viola accanto per tutto il film ed ha un suo modo molto particolare di dimostrare questo affetto.
Il look ha aiutato anche Adamo e Giacomo. Che tipo di lavoro è stato fatto?
Adamo Dionisi: Stefano ci ha pressati tutti moltissimo: Nel mio caso abbiamo lavorato tantissimo per creare questo principe nero, questo personaggio spietato e risoluto. Non è stato facile, ma è stato divertentissimo. Se pensiamo a tutto quello che affrontiamo, tutti possiamo tirare fuori un lato più cattivo. Anche nel mio caso essere diretto da Stefano ha aiutato, è uno che anche se anche pensi soltanto di fare una cosa sbagliata se ne accorge.
Giacomo Ferrara: Il lavoro su Spadino è iniziato sin dalla fase dei provini, già lì mi ha dato delle dritte molto importanti per dar vita al personaggio. La possibilità di vivere realmente quella realtà ci ha permesso di caratterizzare in modo più realistico ed entrare totalmente in quei panni.
Nel personaggio di Alessandro sembra cogliere anche qualcosa di quello del film di Caligari.
Voi avete visto prima Non essere cattivo, ma io ho girato prima Suburra, quindi forse è Vittorio che ha rubato qualcosa a Numero 8. Il legame è che forse entrambi hanno un lato malinconico.
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Un film che fa acqua da tutte le parti (letteralmente)
È difficile fare un film del genere in Italia?
Stefano Sollima: Non credo, dipende molto dall'approccio che si usa. Usando il genere, si ha la possibilità di rendere internazionale il progetto perché si usano degli stilemi di genere che ti permettono di proporre un racconto più universale. Anche in Gomorra abbiamo raccontato un mondo specifico, in una lingua sconosciuta a molti, e siamo riusciti a farla arrivare anche all'estero. Anche in questo caso con Netflix riusciamo a raggiungere subito una diffusione molto più ampia di quello che ci si aspetterebbe.
Alla fine l'Apocalisse non c'è, ma c'è una conclusione per ogni singolo personaggio e tutto sembra ricominciare. Questo senso di continuità di Roma quanto vi preoccupava? È questo che affronterà la serie?
Stefano Sollima: Il racconto attraverso la metafora dell'acqua, di questa pioggia battente, mi sembrava interessante, anche in vista del presupposto apocalittico. E mi sembrava ancora più affascinante che alla fine ci fosse la solita fanga, più che un'apocalisse, ma le strade allagate e i tombini che esplodono.
Pierfrancesco Favino: Roma sopravvive sempre, nella sua maniera tutta unica.
Non si vedono mai poliziotti o magistrati. È una scelta?
Da un certo punto di vista è anche più semplice avere un punto di vista esterno, come un poliziotto, per raccondare i vari mondi. Però mi sembrava più snello e interessante che ognuno raccontasse da solo il proprio mondo.
Il finale non è troppo frettoloso?
Stefano Sollima: Io lo trovo un finale sorprendente e per niente frettoloso. Ha piuttosto una struttura a imbuto che accelera nel finale, quando tutti i personaggi si avvicinano. A me sembra il finale perfetto per questa storia, che chiude alla perfezione l'evoluzione della storia.
Rulli: il film è tutto architettato nell'ottica della caduta del potere e per questo è giusto che sia il personaggio più piccolo che uccide il più grande.
Pierfrancesco Favino: Abbiamo voluto realizzare una storia che non salva nessuno, che non rassicura