Scrivendo la recensione di Storia delle parolacce, nuova serie comica di Netflix con Nicolas Cage nelle vesti del presentatore, è difficile non pensare a uno dei grandi nomi della comicità americana, ossia George Carlin. Scomparso nel 2008, è stato designato nel 2017 dalla rivista Rolling Stone come il secondo miglior stand-up comedian di tutti i tempi (il primo classificato era Richard Pryor), e uno dei tanti motivi per cui è amatissimo ancora oggi è un celebre monologo che lui recitò per la prima volta nel 1972. Si tratta, ovviamente, di Seven Words You Can Never Say on Television, un magnifico gioco linguistico dove lui elenca e poi analizza le sette parole che all'epoca non si potevano dire sul piccolo schermo (e ancora oggi, salvo rare eccezioni, non sono concesse sui canali generalisti): nell'ordine, shit, piss, fuck, cunt, cocksucker, motherfucker e tits. Il fascino di quell'elenco stava proprio nell'analisi, etimologica e sociologica, di ciascun termine, con varianti autoironiche del monologo nel corso degli anni: nel 1978, per esempio, Carlin disse di aver provvisoriamente tolto motherfucker dalla lista, su suggerimento di un linguista, in quanto derivato da fuck, salvo poi rendersi conto che così facendo il ritmo era sballato ("Shit, piss, fuck, cunt, cocksucker, tits. Non sembra anche a voi che manchi qualcosa? Un vecchio amico?").
Sei parolacce in cerca di riabilitazione
Storia delle parolacce è una sorta di naturale evoluzione del pensiero di George Carlin: ogni episodio si apre con Nicolas Cage che, introduce, a suo modo, l'argomento di turno (le sei parole, una per puntata, sono fuck, shit, bitch, dick, pussy e damn). La parola in questione viene poi sottoposta all'analisi di vari specialisti, che si tratti di comici come Jim Jefferies o Nikki Glaser (entrambi noti per i contenuti espliciti delle loro esibizioni di stand-up), di esperti di linguistica o anche di critici cinematografici, poiché in alcuni casi il rapporto tra le parolacce e lo schermo è oggetto di fenomeni interessanti. Se prendiamo fuck, per esempio, c'è tutta la questione dei divieti per il mercato statunitense: se il film è PG-13 (sconsigliato ai minori di 13 anni non accompagnati) il limite ufficiale è un uso singolo di quella parola (ma in realtà è possibile arrivare fino a quattro, a patto che non la si usi in un contesto sessuale), mentre nei lungometraggi con il visto R (vietato ai minori di 17 anni non accompagnati) "la gente parla come nella vita di tutti i giorni". Con damn c'è invece la famosa vicenda di Via col vento: nel 1939, causa Codice Hays, non erano ammesse espressioni volgari e/o blasfeme di alcun tipo, e David O. Selznick dovette rivolgersi a William Hays in persona, il quale poi acconsentì a eccezioni legate al contesto storico o alla fonte letteraria (la celebre battuta finale di Rhett Butler è presa alla lettera dal romanzo). E ovviamente c'è Cage che recita tutte le varianti ritenute accettabili all'epoca, abbracciando pienamente la propria maschera di attore eccentrico e larger than life.
La "folta" carriera di Nicolas Cage: i ruoli, le trasformazioni e le acconciature
È un excursus che si può divorare in un paio d'ore (ogni episodio dura appena venti minuti), un viaggio piacevole e non privo di bislacchi tocchi personali, come nell'episodio sulla parola shit in cui uno degli ospiti è l'attore Isiah Whitlock Jr., noto per la sua pronuncia molto particolare di quel termine specifico (vedi alla voce The Wire). C'è però qualcosa di riduttivo e superficiale nell'approccio degli autori, che in più punti sembrano esitare tra il voler fare qualcosa di approfondito su un argomento tabù molto affascinante (l'evoluzione storica dei vari termini, che non furono considerati volgari per diversi secoli, è ricca di spunti che giustificherebbero dei documentari a sé, cosa già avvenuta a suo tempo, in parte, con la parola fuck) e il mettere in scena uno spettacolo affidato alla recitazione inimitabile di Cage, il cui ruolo ridotto rispetto ai vari ospiti è indubbiamente l'unico grande difetto di un'operazione che finora è stata venduta proprio sulla base della sua lunatica e autoironica partecipazione. Non a caso, l'episodio migliore è il primo, dove viene direttamente chiamata in causa la filmografia dell'attore. Dopodiché si ride e si riflette, ma con la netta impressione che manchi qualcosa. Non per forza il vecchio amico di cui parlava Carlin, ma il ritmo non è più esattamente lo stesso. Come se qualcuno, andando contro il senso del suo coinvolgimento, avesse messo il buon Nicolas dentro una gabbia. Ma quando esce lo spettacolo è meraviglioso. Anzi, è meraviglioso, cazzo!
Conclusioni
Chiudiamo con un sorriso la recensione di Storia delle parolacce, serie elementare ma divertente che affronta l'argomento tabù del turpiloquio con gusto e brio.
Perché ci piace
- L'argomento si presta a un approccio approfondito e al contempo irriverente.
- Gli ospiti sono molto interessanti.
- Nicolas Cage è strepitoso...
Cosa non va
- ... Ma non appare abbastanza.
- Sconsigliato a chi non sopporta assolutamente le parolacce.