Nato a Londra, cinquantun anni compiuti una settimana fa, una formazione da video-artista fra i più stimati della sua generazione, a partire dal 2008 Steve McQueen ha legato il proprio nome soprattutto al mondo del cinema: fin da quel suo folgorante e apprezzatissimo esordio con Hunger, McQueen si è dimostrato infatti una delle voci più potenti della scena contemporanea e nel 2013 ha ottenuto un enorme successo in tutto il mondo con 12 anni schiavo, che gli ha permesso di conquistare il premio Oscar per il miglior film.
Ospite della seconda giornata della Festa di Roma 2020, Steve McQueen ha ricevuto il premio alla carriera e ha presentato alla stampa e al pubblico il suo nuovo progetto, Small Axe: una serie antologica composta da cinque film da lui stesso scritti, prodotti e diretti, che saranno resi disponibili su Amazon Prime Video fra il 20 novembre e il 18 dicembre. Ma la consegna del premio alla carriera è stata soprattutto un'occasione, per il regista britannico, di rivisitare il proprio percorso cinematografico, nonché le opere che hanno dato origine alla sua passione per la settima arte.
I film preferiti di Steve McQueen: Zero in condotta e Rocco e i suoi fratelli
Il tuo film preferito è Zero in condotta di Jean Vigo: cosa te ne ha fatto innamorare?
Mi ricordo esattamente la prima volta che vidi il film, in un piccolo cineclub di Londra. Mi colpì subito la maestria di questo grande cineasta e quello che stava cercando di dire attraverso questi bambini che cercano la libertà in una struttura così rigida e autoritaria. Forse per via della mia esperienza scolastica, o forse per il contesto sociale dell'epoca, Zero in condotta mi ha portato a riflettere sulle cose per cui si combatte e sugli ostacoli da superare. Quei ragazzi che combattevano per la propria libertà mi hanno illuminato mentre mi trovavo seduto nel buio di un piccolo cineclub.
C'è qualcosa che ti ha ispirato, in qualità di regista, del lavoro di Jean Vigo?
La cosa più importante che ho imparato è che bisogna correre dei rischi. Proprio in quei cineclub di Londra ho avuto modo di apprezzare i film di registi europei che mi hanno fatto capire che nel cinema tutto è possibile: non esistono cose giuste o sbagliate, esiste solo la ricerca della verità.
Invece il tuo film italiano preferito è Rocco e i suoi fratelli: cosa ti ha fatto amare così tanto il film di Luchino Visconti?
Non mi ricordo in quale cinema l'ho visto per la prima volta; a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta c'erano diverse sale d'essai che mi consentivano di recuperare classici come questo, e inoltre di vederli sul grande schermo. Ero molto fortunato, e peraltro eravamo prima dell'avvento dei DVD, pertanto non avevo altra scelta che andare al cinema; anche l'atto di recarsi in una sala fa parte dell'esperienza, ecco perché sono estremamente grato alla Festa del Cinema di Roma per aver deciso di andare avanti. Di Rocco e i suoi fratelli mi hanno conquistato la grandiosità, il realismo, la passione; perfino nel senso di materialità e di concretezza espresso dal film, come la ghiaia che ti scalfisce le mani. Ed è anche un'opera sui problemi della mascolinità.
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Gli esordi: Hunger e Shame
Come mai in Hunger hai scelto di utilizzare molte inquadrature fisse e piani sequenza?
Per mantenere molto alta la tensione, perché gli stacchi di montaggio fanno 'respirare' il pubblico; invece, con una scena senza tagli, il pubblico rimane lì, teso e presente. Si tratta di trovare il giusto equilibrio fra i tagli di montaggio e la durata dell'inquadratura. Nel caso del dialogo fra Bobby Sands e il prete, non c'erano dubbi: bisognava girare la scena in piano sequenza. Quella scena, con un'analogia tennistica, è come la finale di Wimbledon fra due straordinari tennisti di origine irlandese, John McEnroe e Jimmy Connors, con caratteristiche completamente diverse: Connors giocava dal fondo del campo, mentre McEnroe era un maestro nelle schiacciate e nei servizi. In qualche modo, è come se McEnroe fosse Bobby Sands, che cercava di chiudere il match, mentre il prete aspetta che l'avversario si stanchi per poi stenderlo con un rovescio. Davanti a un duello del genere non puoi staccare lo sguardo, e un taglio avrebbe diminuito la tensione.
Cosa ti ha spinto a raccontare la storia di Bobby Sands?
Mi ha colpito la sua fermezza. Si può essere o meno d'accordo con qualcuno, ma trovo ammirevole la fermezza di chi rimane saldo sui propri principi e combatte per ciò in cui crede. Mi è venuto in mente quando i genitori, da bambino, ti dicono: "Non puoi alzarti da tavola finché non hai svuotato il piatto". In quei casi il nostro unico mezzo di protesta era rifiutarci di mangiare, perché tutto il resto veniva deciso dai nostri genitori. Bobby Sands mi fa pensare a questo. Ricordo benissimo l'immagine del suo volto durante lo sciopero della fame, con accanto un numero; all'epoca, avrò avuto nove o dieci anni, chiesi a mia madre se quel numero fosse la sua età, e lei mi rispose che si trattava invece dei giorni da quando aveva iniziato lo sciopero della fame. Il suo unico potere era legato al suo corpo: la sua arma consisteva nel rifiutarsi di mangiare.
Anche in Shame hai usato spesso inquadrature fisse; come mai spesso hai ripreso i personaggi di spalle?
Posso dire che ha funzionato. Volevo che nel film comparissero le immagini di questi cartoni animati che andavano in onda la sera, come Felix the Cat. Inoltre, quando non riusciamo a vedere i volti di chi parla ascoltiamo con maggior attenzione, un po' come quando ci capita di sentire stralci di conversazione e ci scatta la curiosità.
La tua attività da artista ha influenzato il tuo lavoro da regista cinematografico?
Da bambini, appena prendiamo in mano un pennarello, iniziamo a pensare in termini di prospettiva. Per me non c'è una grande differenza tra fare cinema ed esprimermi come artista contemporaneo. Se proprio dovessi trovare una distinzione potrei dire che il cinema è un'arte narrativa, quindi un film è come un romanzo, mentre l'arte contemporanea è più assimilabile alla poesia e ti porta anche ad esplorare forme diverse. Per me l'arte deve avere questo tipo di impatto, e spero che tutti noi possiamo convivere con l'arte: in fondo è un'esperienza comune voler tornare in un museo a rivedere un quadro che abbiamo già visto, perché ogni volta ci comunica qualcosa di diverso. Quando ci allontaniamo da un'opera d'arte questa tende a svanire dalla nostra mente, e perciò abbiamo bisogno di tornare ad ammirarla e a ritrovare le sensazioni che ci offre. Per me, il cinema è uno spazio mentale diverso.
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Il successo internazionale: da 12 anni schiavo a Widows
Ritieni che il razzismo sia un elemento connaturato all'essere umano?
No, se vogliamo fare progressi come esseri umani. Mi interessa ogni tipo di progresso che possa migliorarci, il progresso è l'unico modo per migliorare. Credo che sia un obiettivo condiviso da tutti, e in questo caso non dovrebbero esserci dubbi: nessuno vuole trovarsi dalla parte sbagliata della storia.
È stato difficile trovare finanziamenti per un film come 12 anni schiavo?
No, è stato piuttosto facile, e non serviva un finanziamento imponente; forse anche il fatto che sia stato girato all'epoca di Barack Obama ha contribuito ad "aprirci la porta" e ad incrementare l'interesse nel finanziare un film come questo, con un protagonista nero. Siamo partiti da un budget di diciannove milioni di dollari e ne abbiamo incassati quasi duecento milioni. Inoltre sembra che molti afroamericani abbiano avuto timore ad andare a vedere il film al cinema, e ciò potrebbe spiegare perché 12 anni schiavo abbia avuto un enorme successo quando è uscito il DVD, con vendite altissime in meno di una settimana. Si è trattato di un momento di svolta, che ha dimostrato il potenziale di film del genere.
Come mai, dopo 12 anni schiavo, hai deciso di passare a un film tanto diverso, il thriller Widows?
Widows è basato su una serie TV dallo stesso titolo, che mi aveva colpito molto da ragazzo: rimasi molto impressionato da queste donne che avevano tutto e tutti contro, ma che ciò nonostante riuscivano a superare le loro avversità e ad avere la meglio. All'epoca si trattava del maggior successo televisivo d'Inghilterra, era estremamente popolare, pur raccontando le storie di personaggi che a prima vista apparivano come dei perdenti.