Lo dice lo stesso Alberto Rizzi, regista di Squali: i grandi autori e i grandi romanzi spaventano, ma lasciano una maggiore libertà artistica. Siamo d'accordo, ritrovando la luce di questo pensiero in Squali, adattamento - alla veneta - de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Un'operazione non esente da rischi (e infatti), che parte da un'idea suggestiva e si allunga poi verso una produzione ovviamente ambiziosa, quasi visionaria.
Il film è tra l'altro un contropasso per l'eclettico Rizzi (che con la macchina da presa dimostra di saperci fare), all'opera seconda dopo Si muore solo da vivi (uscito nello sfortunato 2020). Un contropasso perché i toni filmici sono diversi, quasi sperimentali, a tratti estremi nella geografia generale di un'opera che sfrutta il paesaggio e il luogo per una storia che, però, punta ad una complessa verbosità e ad una (a volte faticosa) ricerca dell'estetica, sovrapponendosi alla parola.
Squali: i Karamazov parlano veneto
La storia? Stringata, come quella dei Karamazov, al netto dell'imponente opera russa. Un padre terrificante e il ritorno a casa dei suoi figli. Tutti differenti, tutti spigolosi. È la famiglia, sia secondo la revisione moderna di Dostoevskij, la vera protagonista del film. Un corpo unico, e fluido nella sua conforme massa di azioni, istinti, tradimenti, bugie, meschinità. Fratelli e fratellastri al capezzale di Leone Camaso (Mirko Atruso), papà spregevole e tirannico.
Ci sono Demetrio (Stefano Scherini), poi Ivan (Diego Facciotti), Flor (Astrict Lorenzo), Alessio (Gregorio Righetti) e Sveva (Maria Canal). Ognuno tornato per un motivo diverso - tranne Sveva, che aspetta un figlio, ed è rimasta a vivere con il mostruoso padre -, ognuno con una propensione diversa nei confronti di una suggestione che si avvicinerebbe al liberatorio parricidio. E in mezzo, pure l'apparizione di una santa (Chiara Mascalzoni).
Squali: dietro le quinte del film (ambizioso) di Alberto Rizzi
Un far west umano
Indubbiamente, Squali è un film in cui il senso cinematografico è ben sedimentato. Un cinema che si riflette nella livida fotografia di Michele Brandstetter de Bellesini (inutile dire che la luce del film è la stessa che possiedono i fratelli Camaso), o nella decadente e grezza scenografia di Anna Pieri (ottimo lavoro), in grado di dare sostanza e odore alle scene, e suggerendo un mondo perduto e disfunzionale. Tutto, pensato da Rizzi seguendo i canoni di un western che, per dinamiche e duelli, elabora la frontiera come confine umano, portando a dialogare i tre piani del film: paesaggio, personaggi e, ancora, scrittura.
Quel western oggi riscoperto, e sfruttato sia in Italia che all'estero. Dunque, se il Veneto è "il Texas d'Italia" (lo ha sottolineato anche il regista durante il nostro incontro), le persone che si muovono al suo interno riflettono però un modo di pensare che sembra voler costantemente sovraesporre il materiale. Approfittando di una messa in scena fin troppo allegoria che, alla lunga, porta a far smarrire il senso stesso delle molte parole. Parole e dialoghi, tra rabbia, rancore e poi ancora riappacificazione, che si accalcano lungo una durata snella (108 minuti) tuttavia poco ritmata secondo le logiche di un film sì feroce (e l'ambiguo titolo è un'ulteriore allegoria) ma forse più attento alla forma (e alla formalità) rispetto alla sostanza, purtroppo solo accennata e solo suggerita.
Conclusioni
Convertire i Karamazov in chiave veneta. Idea coraggiosa, visionaria e notevole, per un film che si prefigge l'ardito obbiettivo di mutare la simbologia western secondo una geografia umana e territoriale ben riconoscibile. Se lo spunto è notevole, il film si perde seguendo un'estetica a volte ridondante, che offusca sceneggiatura e parola.
Perché ci piace
- Una buona messa in scena.
- L'ambizione, notevole.
- E il coraggio, sicuramente meritevole.
Cosa non va
- A volte l'estetica sovrasta la sceneggiatura.
- Un compimento generale che risulta poco equilibrato.