"La ricetta per riportare la gente al cinema? Non la conosce nessuno, io ho solo provato a fare un film onesto, sincero. Quando l'ho scritto nel 2019 sentivo l'urgenza di raccontare la precarietà esistenziale di una generazione, quella dei quarantenni". Non ha dubbi Gianni Costantino, che sfida l'arsura estiva e arriva in sala dal 4 agosto Sposa in rosso con Sarah Felberbaum ed Eduardo Noriega nei panni della coppia protagonista. Una commedia di maschere sull'amore, il tempo che scorre e su una generazione di precari schiacciata da quella dei padri e "divorata da quella successiva". Intanto sta scrivendo una storia al femminile in cui parla della "difficoltà di fare figli o di ritrovarsi a farne sempre più tardi", in futuro lo rivedremo a lavoro con Fabio Bonifacci, che nel 2001 aveva firmato il soggetto del suo esordio alla regia, Ravanello Pallido: questa volta l'occasione è una un dark comedy Nonna spara per prima, in cui torna il tema del rapporto giovani e vecchi, genitori e figli. Nel frattempo ci racconta come è stato tornare alla regia e su una sceneggiatura scritta da lui.
Da Ravanello Pallido a Sposa in rosso
Per la prima volta scrivi e dirigi. Come mai solo adesso?
Il mio percorso è stato abbastanza anomalo. A 28 anni ho voluto far esordire alla sceneggiatura un'amica, Luciana Littizzetto. All'epoca eravamo amici, secondo me aveva delle qualità, io però ero abbastanza giovane, quindi contattammo il produttore e facemmo questo film che lei scrisse insieme allo sceneggiatore Fabio Bonifacci, diventato negli anni uno dei più famosi.
E poi cosa succede?
Finimmo per avere dei punti di vista divergenti con Luciana, che secondo me non avrebbe potuto fare la protagonista assoluta di un film, ma al massimo da spalla. La considero più un'attrice di supporto, da avanspettacolo, che poi è stato il suo cammino. Queste divergenze hanno incrinato la nostra amicizia, perché il film andò abbastanza bene nonostante ci scontrassimo con Bridget Jones. E così per tanti anni misi da parte quella parabola della mia giovinezza e finii per fare l'aiuto regista da Sergio Rubini a Daniele Luchetti, e il casting director. Avevo bisogno di crescere, era come se a 28 anni fossi andato a guidare in Formula Uno senza essere allenato a farlo, e allora mi sono fatto un'autocritica. Poi per parecchi anni entro nella squadra di Ficarra e Picone, faccio il loro aiuto a tutto tondo da La matassa fino a Il primo Natale, durante le riprese del quale a Palermo incontro Roberto Lipari, un ragazzo che loro conoscevano e che mi sembrava molto promettente. Mi presenta un soggetto, un trattamento che era quello di Tuttapposto e da lì mi sono di nuovo innamorato dell'idea di fare film. Era come se per un periodo avessi fatto il regista nascosto, ma forse era anche un modo per deresponsabilizzarmi.
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Fino a Sposa in rosso...
Esatto, avevo nel cassetto un po' di storie e sollecitato anche da alcuni produttori e dal mio agente ho iniziato a pensarci. Questa mi sembrava quella giusta, l'avevo presentata nel 2019, ma poi la pandemia ha allungato tutto. L'idea mi arriva più o meno sei anni fa dopo una serata a casa di una coppia di amici pugliesi, che aveva appena comprato una seconda casa con l'idea di vendere quella in cui abitavano per poter usufruire delle agevolazioni sulla prima casa. Ma vendere era diventato molto più complicato del previsto: gli acquirenti non si trovavano, i tempi si allungavano e loro avevano bisogno di concludere al più presto. Fu a quel punto che gli proposi di sposarsi e usare i soldi delle "buste" del matrimonio. Mi ricordo che feci proprio dei calcoli: "300 euro per 300 invitati ci guadagnate una somma sui 60/ 70 mila euro". È la stessa trovata del film.
La commedia e il racconto generazionale
Oltre a essere una commedia romantica è anche il racconto di una generazione, quella dei quarantenni di oggi idealmente rappresentata dalla coppia di protagonisti, Roberta e Leon. Tu come la vivi?
Il fatto che a quarant'anni si sia ancora così precari e senza una certezza mi è sempre pesato. Anch'io come lavoratore dello spettacolo avverto molto il senso della precarietà e l'impossibilità di pensare di costruire qualcosa, perché gettare delle basi ha bisogno di una solidità soprattutto economica. I nostri genitori hanno potuto beneficiare della grande spinta del boom degli anni '60, quando c'era lavoro per tutti e i soldi giravano. Come paese ci siamo indebitati, ma loro hanno avuto la fortuna di vivere quella spinta; a noi hanno lasciato in dote delle cose ma sempre sotto forma di ricatto. È una generazione schiacciata tra quella dei padri e quella dei giovanissimi rispetto ai quali è già troppo vecchia.
Hai deciso di ambientare la storia tra Malta e la Puglia. Da dove arrivano queste suggestioni?
Ho voluto che i due personaggi si muovessero su un'isola perché la storia ha anche un percorso epico. Volevo inoltre un'isola in mezzo al Mediterraneo dove non si parlasse un'unica lingua e che fosse un miscuglio di popoli, un luogo di passaggio, ma quello che mi interessava maggiormente era il fatto che Roberta e Leon fossero due profughi, esuli alla ricerca di una propria identità e di un posto dove stare. Questo mi ha portato anche a volere con tanta determinazione un attore non italiano, come Eduardo Noriega, che amo da tanto per quello che è e per il suo percorso artistico.
È anche un film sul tempo ...
La questione del tempo è presente sin dall'inizio del film: dall'orologio alle lancette che si fermano un'unica volta e solo quando Roberta e Leon stanno davvero bene. Come del resto succede nella vita: quando stai bene con una persona, amico, amica o fidanzato che sia, non ti fermi mai a guardare l'orario. È una bella sensazione, perché vuol dire che il tempo è andato mentre noi stiamo cerchiamo di rincorrerlo costantemente.
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Tra maschere e citazioni
E poi usi molte citazioni da Braveheart a Serendipity, Il mago di Oz.
Secondo me aiutano lo spettatore a determinare bene la situazione del momento, quello che il personaggio vuole dire. Facilitano il meccanismo di comunicazione di un sentimento.
Che tipo di indicazioni hai dato a Sarah Felberbaum perché fosse così credibile nei panni di Roberta?
Roberta è una donna che ha paura di innamorarsi, e lo si avverte soprattutto dalle reazioni violente nei confronti di Leon. Si mette sulla difensiva come un cane che abbaia quando si sente attaccato. Ed è quello che le ho chiesto. Sarah è un'attrice con tantissime qualità, fino a ora l'hanno esclusivamente centrata sul ruolo della donna dura, realizzata, avvocata in carriera, invece il personaggio di Roberta le chiedeva di lavorare diversamente; quando ha letto il copione è rimasta folgorata, ma nello stesso tempo si chiedeva se fosse stata in grado di interpretare una parte simile. E io ero assolutamente sicuro potesse riuscirci: Sarah si porta dentro una formazione inglese, molto misurata e io avevo proprio bisogno di un'attrice che fosse in un certo senso bloccata e che non si lasciasse andare. Roberta è così per tutto il film, fino poi allo sguardo finale decisamente più solare
La girandola di personaggi secondari è una commedia di maschere. Perché era così importante lavorare su questo aspetto?
Il concetto di maschera, scudo, camuffamento, l'idea di modificarsi è qualcosa che nella vita utilizziamo quasi quotidianamente per proteggerci e creare un antidoto alla realtà. Se osservi il reale nella sua crudezza spesso finisci per annullarti, ma se adotti una maschera ti proteggi, solo devi essere bravo a modellarti a seconda della situazione in cui ti trovi. È una tecnica a volte innata e la usiamo ovunque. Nella famiglia del film ci sono due tipi di maschere: una donna tradizionale come Lucrezia un po' kitch, ma dura e decisionista, e dall'altra parte a fare da contraltare l'anti-tradizione, la sorella Giada che è nata uomo. Entrambe a proprio modo si camuffano dietro le proprie acconciature. Credo che in fondo le maschere servano a salvarci da alcune situazioni, essere sinceri fino in fondo non sempre paga, dall'altra parte a volte si rischia di essere visti come persone antipatiche. Ma la bravura consiste nel sapersi modellare.
Sposa in rosso non è solo camuffamenti, contiene una critica spietata a questo paese. Lo dice in una battuta Giorgio, l'eccentrico guru interpretato da Massimo Ghini: "L'Italia è il paese della fantasia e della creatività si recita a soggetto, in Italia la realtà si inventa e diventa vera". Ci vai giù pesante...
Basta guardare quello che sta accadendo in politica. Sono convinto che Draghi verrà riportato in qualche modo alla ribalta probabilmente sotto un'altra veste; è un sistema e sono tutte maschere, finzioni. Ci hanno fatto credere che Meloni e Salvini fossero l'uno contro l'altro poi li vedi insieme al tavolo con Berlusconi. Racconto un paese congelato nella riproposizione dello stesso schema, ce lo propinano ormai da quarant'anni. E a pagarne le conseguenza non saranno i nostri genitori con una pensione, ma questa schiera che sta in mezzo. E poi c'è un camuffamento anche dei sentimenti: zia Giada e Giorgio si spigolano, giocano tra di loro, però alla fine c'è un'attrazione come tra i genitori di lei che incontriamo in un momento in cui il padre vorrebbe addirittura darsela a gambe levate.
Attraverso il personaggio della zia Giada sfiori anche il tema della transessualità. Qual è stata l'evoluzione del personaggio in fase di scrittura? Gli avresti voluto dedicare più spazio?
No, perché volevo un film dove la trama principale, la linea portante, fosse la truffa delle "buste" messa in scena dai protagonisti. Mi interessava concentrarmi sul rapporto genitori e figli e sul fatto che in Italia non si abdichi mai per lasciare spazio ai giovani, e lo racconto con la figura delle tre zie, immagine di morte: sono vestite di nero, stanno dietro a una finestra, escono solo di notte, sono delle mummie. Stanno lì e governano tutto dall'alto. Il tema della transessualità viene da una suggestione: quando avevo 10 anni e andavo con i miei in campagna a Sant'Agata de' Goti, in provincia di Benevento, c'era una donna che veniva al bar con una parrucca. Crescendo mi dissero che era un uomo, ma per me è sempre stata una donna e quello era un suo modo già all'epoca di non avere nessun timore nel dire al popolo: "Io sono questa". Questo ricordo me lo sono portato dentro e quando sono andato a costruire l'aspetto matriarcale di questa famiglia, mi è tornato subito in mente. Ho immaginato Roberta passare le giornate con questa zia, un uomo che stava diventando donna. Approfondirlo di più avrebbe voluto dire sconfinare.
Come hai convinto Ligabue a cedere i diritti per l'uso di una canzone, quella dedicata al cugino, che non canta quasi mai...
Ci eravamo incrociati tanti anni fa per alcuni suoi video; poi attraverso un mio carissimo amico, che è anche il regista attuale di tutti i suoi concerti, ho avuto modo di fargli vedere il film anche se non ancora completo, per capire se fosse possibile avere quella canzone che in qualche modo ha segnato un po' la scrittura di Sposa in rosso. Il ritornello del brano dice infatti "il destino ha la sua puntualità", due elementi che costituiscono l'elemento cardine del mio protagonista. Ligabue comunque, vide il film e mi disse che lo aveva emozionato e aveva capito benissimo i temi trattati. Da quel momento diede l'autorizzazione alla Warner per farmi avere "Lettera a G".