"Sono stato benedetto con la possibilità di esprimere il pensiero dei neri che altrimenti non hanno accesso al potere e ai media. Devo sfruttare quest'opportunità finché sono ancora garanzia di incassi"
La vis polemica non gli difetta certo. Il regista arrabbiato per antonomasia non perde l'occasione di scagliarsi contro ciò che, a suo parere, non va nella società odierna. Cantore dei diritti degli afroamericani, più che del messaggio di pace ed equilibrio diffuso da Martin Luther King, Spike Lee sembra essersi nutrito dei proclami ben più drastici dell'altro campione contro le disuguaglianze, Malcolm X, sposando la causa della lotta dei neri contro i bianchi. Non per nulla al leader della Nazione dell'Islam, nel 1992, Lee ha dedicato un appassionato pamphlet.
Naturalmente al di là della natura rissosa, l'arma di Spike Lee è il cinema, mestiere in cui l'autore brucia le tappe grazie all'aiuto della nonna Zimmie Shelton, nata schiava e poi laureatasi al college, che gli ha fornito parte dei soldi necessari per realizzare Lola Darling, inaugurando così una carriera eccezionale. La sua visione del mondo a tinte forti è ben esemplificata dalle sue pellicole più famose, ma pur concentrandosi su battaglie di valore morale e civile (non ultima quella contro l'ascesa di Donald Trump), la lingua tagliente di Spike Lee si è diretta contro ciò che non andava a genio all'autore. Celebre è la sua querelle col collega Quentin Tarantino, colpevole di usare con troppa facilità il termine "nigger" nelle sue sceneggiature, ma sui giornali americani trovano spazio anche le polemiche sportive visto che il regista è un fan sfegatato dei New York Knicks.
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Oggi Spike Lee compie 60 anni, ma non per questo la sua voglia di lottare sembra affievolirsi. Uno dei registi afroamericani più importanti di sempre, nonché uno degli autori più significativi degli anni '80-'90, oggi sembra aver perso un po' di smalto. Dopo aver sfornato capolavori come Fa' la cosa giusta, Jungle Fever, Malcolm X e La 25a ora, il nuovo millennio ha coinciso con un drastico calo nella produzione e quei pochi film che il regista è riuscito a portare a termine non hanno entusiasmato. Spike Lee non si è, però, perso d'animo concentrandosi sui documentari con la sua 40 Acres and a Mule, casa di produzione il cui nome rievoca la promessa - mancata - fatta agli schiavi afroamericani liberati dopo la guerra civile. Dall'appassionato Bad 25, dedicato al 25° anniversario del celebre album di Michael Jackson, allo struggente When the Leeves Broke. A Requiem in Four Acts, requiem in quattro atti in cui vengono ricostruite le varie fasi della devastazione di New Orleans da parte dell'Uragano Katrina, Spike Lee continua a usare il linguaggio per immagini per affrontare temi importanti. La sua nuova sfida è il piccolo schermo visto che a 60 anni il regista sta realizzando per Netflix uno show ispirato proprio a Lola Darling. 30 anni dopo il furore resta immutato.
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La lunga estate calda di New York: il razzismo c'è e si vede
Dopo essersi diplomato alla NYU Tish School of the Arts, Spike Lee gira Lola Darling in 12 giorni nell'estate del 1985 con un budget di 175.000 dollari. Il film guadagnerà più di 7 milioni. Maniaco del controllo, il regista scrive, dirige, produce prendendo le decisioni importanti da solo. Unica eccezione, la collaborazione del padre Bill Lee che compone le colonne sonore dei primi film. Dopo aver gettato le basi del suo stile, nel 1989 Spike Lee realizza il manifesto più puro del suo pensiero, Fa' la cosa giusta, caotico e colorito ritratto della periferia di Brooklyn vista come teatro di scontro tra minoranze: quella afroamericana, indolente e ingombrante, e quella italoamericana, razzista e confusionaria.
Spike Lee non teme di mettere il dito nella piaga e descrive a muso duro gli stereotipi razziali calcando la mano sugli aspetti più eccessivi. Lo scontro tra neri e italiani, che tornerà in numerose pellicole, è il leitmotiv delle periferie degradate di New York, ma è anche un omaggio intrinseco a colui che Spike Lee considera suo maestro, Martin Scorsese. Nel cinema di Lee non c'è spazio per i santini, tutti sono imperfetti allo stesso modo e anche se il regista sceglie come sua vocazione primaria quella di dar voce alla minoranza afroamericana non per questo ne dipinge i membri in maniera positiva. La critica c'è ed è feroce, ma è accompagnata da uno stile divertente e da dialoghi al fulmicotone che spostano la riflessione su un altro livello.
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Amori e serial killer, ma sempre politically uncorrect
Il tema dello scontro razziale si ripropone in maniera meno chiassosa in Jungle Fever, storia d'amore proibita tra un brillante architetto nero (Wesley Snipes) e la sua segretaria bianca (Annabella Sciorra). Ancora stereotipi - sessuali - a confronto per una riflessione raffinata sulle regole imposte dalle comunità, sul confine sottile da non varcare per non infrangere tali regole, sull'influenza che i pregiudizi possono avere sulla vita delle persone e sull'influsso nefasto delle droghe sulle famiglie afroamericane - tema questo toccato col personaggio di Samuel L. Jackson, fratello del protagonista strafatto di crack.
In una prima versione Spike Lee aveva posto in apertura del film un monologo in cui, sguardo in macchina, si rivolge al pubblico con tono polemico. Il monologo si concludeva così: "Questo film parla di una coppia interrazziale. E tutti quelli che mi giudicano antisemita possono baciarmi il culo. Due volte". Dopo molte insistenze, il regista si è convinto a tagliare la scena in questione. La comunità italiana tornerà a essere scandagliata da Spike Lee nel 1999 nel period movie Summer of Sam - Panico a New York, ancora un'estate torrida nel Bronx per il primo film del regista che non parla di afroamericani, ma si concentra su alcuni membri della comunità italiana mentre sullo sfondo si susseguono le efferate gesta di un serial killer che, nel 1977, terrorizzò New York. Film ritenuto "minore", ma dall'impatto notevole.
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Modelli da (non) seguire
Spike Lee è il cantore di cui la comunità black aveva bisogno. Non solo è un regista dal talento dirompente, ma è il primo nero a raccontare gli afroamericani, filtrati finora dallo sguardo di cineasti bianchi. Il regista, che non ama le mezze misure, difficilmente si accontenta. Anche i suoi film meno riusciti si distinguono per la presenza di un'energia rabbiosa, per la rappresentazione della violenza improvvisa e brutale, ma filtrata sempre attraverso uno sguardo ironico. Segno, questo, della grande intelligenza artistica dell'autore che ha avuto il merito di raccontare alcuni membri illustri della comunità afroamericana. Biopic fictional, Mo' Better Blues, è un omaggio al padre jazzista Bill Lee. Il film racconta la storia del trombettista jazz Bleek Gilliam, baciato dal talento e amato dalle donne. Spike Lee si ritaglia il ruolo del suo manager, la cui ossessione per il gioco d'azzardo lo condurrà alla rovina spingendolo a trascinare con sé coloro che cercano di aiutarlo. Il film è una pietra miliare del cinema di Lee. Per la prima volta compare quella che diventerà un marchio di fabbrica, il dolly shot, carrellata nella quale l'attore e la macchina da presa vengono posti entrambi su un carrello in movimento, creando un effetto di disorientamento.
Mo' Better Blues segna, inoltre, la prima collaborazione di Spike Lee con Denzel Washington. I due lavoreranno insieme in altri tre film: He Got Game, Inside Man e nel monumentale Malcolm X. In tre ore e venti il regista condensa la vita eccezionale del leader della Nazione Islamica. Fin dall'incipit, in cui la voce di Malcolm X proclama un durissimo discorso d'accusa nei confronti dei bianchi mentre sullo sfondo una bandiera americana brucia per far posto alle immagini del pestaggio di Rodney King, si capisce che la posta in gioco è alta. Condensare in un film la complessità del pensiero di una figura controversa come Malcolm X è una bella impresa. Il film, dalla struttura abbastanza classica, ripercorre le tappe della vita del leader afroamericano dalla giovinezza scapestrata al carcere, alla conversione all'islamismo e al viaggio alla Mecca per poi affrontare la fase più complessa, quella della maturità, del distacco dalla Nazione dell'Islam fino all'attentato che ne causò la morte, nel 1965, durate un comizio a New York. Per dirigere Malcolm X, Spike Lee ha dato battaglia a Warner strappando il lavoro al bianco Norman Jewison. La stessa vis polemica il regista l'ha impiegata per difendere le proprie scelte creative e per trovare il denaro necessario a raggiungere il budget richiesto. Il risultato finale, caratterizzato da un raffinato lavoro sui colori e sulla fotografia che differenzia le tre fasi in cui si suddivide il film, è molto più equilibrato rispetto alla sua turbolenta lavorazione.
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Prove tecniche di eclettismo
Dopo aver forgiato la propria poetica, Spike Lee ha deciso di protendere lo sguardo fuori dai ghetti afro di New York mettendo alla prova la propria autorialità con opere apparentemente lontane dalle sue corde. Nel 2002, grazie alla collaborazione con lo scrittore David Benioff, il regista ci regala uno dei suoi film migliori. La 25a ora è un'analisi lucida sul lutto inferto alla città di New York dagli attacchi terroristici dell'11 settembre. L'ultima notte di libertà dello spacciatore Monty (Edward Norton) diventa una riflessione universale sul senso di colpa e sulla responsabilità. Nella prima stesura dello script David Benioff aveva tagliato la sequenza del monologo allo specchio di Monty ritenendolo poco cinematografico. Sarà proprio Spike Lee a convincerlo a reintegrarlo rassicurandolo: "Tu pensa a scrivere. Del resto mi occupo io". La sequenza del monologo nel bagno diventerà la scena più memorabile del film.
Con Inside Man, Spike Lee dimostra di saper padroneggiare l'heist movie alla perfezione. Il film è privo delle istanze sociali care al regista che stavolta si concentra sullo stile fornendo un saggio di costruzione della suspence attraverso mirabolanti ritrovati registici. L'esperimento non riuscirà altrettanto bene con Old Boy, remake del cult del coreano Park Chan-Wook. Il film, ben poco coraggioso, spingerà in molti a chiedersi la ragione di una pellicola che non aggiunge niente di nuovo all'originale privandosi, oltretutto, di ambientazione e motivazioni. Il più grande passo falso, però, Spike Lee lo compie con Miracolo a Sant'Anna. Il suo film "italiano" ricostruisce le gesta del battaglione afroamericano della 92° Divisione di Fanteria impegnato sulla Linea Gotica. La loro storia si intreccia a quella dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, rievocato in parte. Il film, risultato un flop, farà arrabbiare anche l'AMPI per le inesattezze storiche, costringendo il regista a giustificarsi senza però che la sua voglia di testare nuove strade venga meno, come dimostrano l'eccentrica love story horror Da Sweet Blood of Jesus e il curioso Chi-Raq, ritorno alla critica sociale che rilegge in chiave moderna e afro la Lisistrata di Aristofane. A 60 anni Spike Lee sembra aver più che mai voglia di sperimentare, esplorare, rischiare e magari anche cadere. L'importante è rialzarsi e finora Spike ci è riuscito in maniera brillante.