Solo l'amore non muore mai
Ovsyanki, questo il titolo originale di questo Silent Souls, parola che in russo significa zigolo, uccellino simile al passero di cui si parla nel film, esserini piccoli e semplici, molto comuni, che si distinguono dai canarini e dai normali passeri, per sensibilità, per il modo di cinguettare e per la brillantezza del loro colore. Come i protagonisti del film, persone comuni a prima vista, anime silenti strabordanti di passione nel loro intimo: due amici che vivono nella cittadina di Neya, una piccola comunità di poche anime che sorge sulle rive dell'omonimo fiume, nel centro ovest della Russia, nel bacino del Volga. Miron, direttore di una piccola fabbrica di carta, ha appena perso la giovane moglie Tanya. Ancora fedele all'antico rito d'addio appartenente alla cultura Merja, antica etnia ugro-finnica stanziata tanti secoli prima nella regione dove ora sorge Mosca, che consiste nel cremare il corpo del defunto per poi spargere le ceneri nelle acque del Lago Nero, Miron chiede al suo amico Aist, il fotografo ufficiale dell'azienda, di accompagnarlo nel lungo viaggio in auto verso l'estremo saluto alla sua amata. Con un cadavere nel bagagliaio, vestito e agghindato secondo tradizione, e una gabbietta con due zigoli al seguito, i due uomini partono per un'avventura on-the-road attraverso terre sconfinate durante la quale verranno a galla pensieri, sensazioni, confessioni intime e verità nascoste che nessuno dei due si sarebbero mai aspettati...
Persone comuni Tanya, Aist e Miron. Quello che li rende speciali è il loro modo di percepire il mondo, le passioni e la morte. Anime silenti che vibrano intimamente mosse da sentimenti ancestrali e da un legame stretto, quasi simbiotico, con il loro passato, con la loro terra, con usi e costumi della loro tradizione, con le persone care che con loro condividono questa discendenza di sangue. Questo il contesto etno-antropologico in cui si va ad inserire il bellissimo Silent Souls, il film presentato in concorso alla 67. Mostra di Venezia e diretto dal talentuoso regista siberiano Aleksei Fedorchenko, dal 2000 direttore del dipartimento di produzione degli studi cinematografici Sverdlovsk ma anche studioso di arte drammatica, sceneggiatore e realizzatore di documentari premiati in diversi festival internazionali tra i quali spicca First on the Moon, il documentario sullo sbarco sovietico sulla Luna con cui vinse nel 2005 la sezione Orizzonti. Quello russo è senza dubbio uno dei versanti attualmente più entusiasmanti del cinema europeo. L'avevano già dimostrato a Venezia nel 2003 Il Ritorno di Andrei Zviagintsev, vincitore del Leone d'Oro per la Migliore Regia e nel 2006 l'Ejforija di Ivan Vyrypyev, due film visivamente impeccabili che raccontavano anch'essi, con lo stesso stile essenziale e altamente espressivo di Fedorchenko, due intense e coinvolgenti storie d'amore e morte sullo sfondo dei una natura incontaminata e avvolgente. Silent Souls racconta al mondo come esistano ancora persone legate indissolubilmente alle proprie radici, svela segreti e paure di popoli e tribù in via di estinzione che lottano ogni giorno per la sopravvivenza di antichi rituali di passaggio tra la vita e la morte.
Le musiche di violino fanno venire i brividi mentre il commovente intrinseco lirismo delle immagini tesse una tela sottile e morbida su cui lo spettatore si sdraia dolcemente, lasciandosi cullare dal procedere lento e inesorabile degli eventi. Fino al sorprendente e tragico finale, che riesce paradossalmente a lasciare nel cuore un senso di appagante leggerezza, perchè la tristezza non è sempre un sentimento negativo, talvolta è capace di avvolgere come una madre e di generare serenità anche nei momenti più dolorosi. La breve durata non deve ingannare: Silent Souls è sì narrato lentamente ma non si avverte mai il peso del silenzio e della mancanza di azione; le inquadrature ad ampio raggio e i piani sequenza lasciano allo spettatore lo spazio necessario per respirare l'essenza di luoghi in cui il tempo sembra essersi fermato.
A fare da filo conduttore tra immagini, suoni e senzazioni la voce fuori campo di uno dei due protagonisti (Atie), che accompagna lo spettatore dall'inizio alla fine, che spiega senza mai risultare troppo ingombrante, le evoluzioni psicologiche dei personaggi e la filosofia antica della tribù da cui tutti loro discendono. La fotografia mozzafiato di Mikhail Krichman, mette meravigliosamente in risalto i colori tiepidi dell'autunno dell'entroterra russo e la magnificienza delle sue radure desolate e malinconiche.
Molto affascinante l'aspetto che sottolinea come in certi posti del mondo regni un rapporto di scambio/ricambio psico-fisico tra uomini e natura, soprattutto con le acque, che scorrono tranquille e silenti come le anime dei protagonisti, ma possono talvolta inghiottire segreti inconfessabili. Una sorta di ciclo infinito che condurrà inevitabilmente alla morte e quindi alla fine di tutto. Tranne dell'amore.
Movieplayer.it
4.0/5