Non fatevi ingannare dal titolo, perché il matrimonio a cui allude non è quello che potete immaginare: nessuna celebrazione in abito bianco, se non quella del reale. Come leggerete nella recensione di Sola al mio matrimonio, il film di Marta Bergman in sala dal 5 marzo è una di quelle esperienze destinata a portare lo spettatore nel territorio della narrazione tipica del cinema verità. Seguendo la lezione dei fratelli Dardenne, la regista fa una scelta in continuità con una vocazione documentaristica ampiamente dimostrata dai suoi lavori precedenti, documentari realizzati principalmente all'interno della comunità Rom. E non è un caso che questo suo esordio al lungometraggio sia nato dal precedente Clejani stories, che si concludeva con l'immagine di una ragazza gitana mentre prepara la valigia per andare in Germania a "far bere gli uomini nei bar". Un'ottima opera prima, che riesce a soddisfare le principali istanze del racconto: assecondare un innegabile bisogno di realtà e nello stesso tempo obbedire alle regole del linguaggio di finzione.
Una storia di formazione ed emancipazione femminile
Sola al mio matrimonio, il cui titolo viene proprio da una canzone intonata dalla nonna della protagonista, è una storia di resistenza ed emancipazione femminile, oltre che di formazione. A raccontarla è Marta Bergman, regista che all'esplorazione della comunità Rom e del paese in cui è nata, la Romania, ha dedicato la maggior parte dei suoi documentari. Il suo è da sempre un lavoro di silenziosa osservazione del reale, che qui trova compimento nella parabola di una giovane donna che sogna di partire e cambiare il suo destino. Pamela (Alina Șerban) è una ragazza Rom, determinata, insolente, ironica e sfacciata, diversa da tutte le coetanee della sua comunità. Vive con la nonna e ha una bambina, ma il suo sogno è andarsene dal rude villaggio in cui abita per conquistarsi un posto nel mondo, un pezzo di libertà e indipendenza per cui lotterà con tutta se stessa, rompendo quella catena di tradizioni che la soffocano. Il suo El Dorado è il Belgio, paese verso il quale decide di partire con la speranza di un matrimonio che le permetta una vita dignitosa per se stessa e sua figlia. Un viaggio al termine del quale potrà essere finalmente una donna libera.
Il film evita toni pietisti o la retorica del racconto ricattatorio, scelta che a livello stilistico si traduce in inquadrature rigorose e in un pedinamento ravvicinato dei personaggi. Lo sguardo della Bergman scava, esplora e porta il pubblico negli spazi di un remoto villaggio dell'Est Europa: la povera casa di Pamela, un unico letto che la protagonista divide con la nonna e sua figlia, chilometri di strade innevate. La macchina da presa indugia sui dettagli, i capelli, il volto, la pelle, il vestito a fiori della giovane eroina, i suoi miseri accessori, per spostarsi poi sugli ambienti più confortevoli e caldi della casa di Bruno in Belgio, il "fidanzato francese" che Pamela incontra grazie ad un'agenzia matrimoniale online. La narrazione si muove tra due luoghi diversi e fortemente simbolici, tra la miseria del piccolo villaggio dove intanto l'amico Marian si preoccupa di badare a sua figlia, e la straniante realtà dell'Occidente con i suoi miraggi di una vita da sogno: una tv, una casa vera e un lavoro dignitoso.
Pamela, indomita eroina
La vera rivelazione del film è Alina Șerban, l'attrice che interpreta la protagonista dando al personaggio uno spessore di grazia indomita e feroce caparbietà. A definirla sono i suoi gesti e una fisicità su cui le inquadrature insistono: Pamela è un corpo rotto, è selvaggia come un leone, ha negli occhi la meraviglia dei bambini davanti alle prime volte, è fragile ma se qualcuno la infastidisce sa come colpirlo, è smarrita nell'altrove che si è scelto e che la respinge. È incandescente in ogni cosa che fa: quando si tinge i capelli, si imbottisce il seno e indossa un vestito a fiori per andare nell'agenzia di incontri a scegliere un uomo gentile, che la rispetti e magari la sposi, o quando con un misero bagaglio, qualche parola di francese e una figlia alle spalle salta a bordo di un autobus per attraversare mezza Europa e arrivare finalmente nella terra promessa.
È l'irruenza a determinarla e a spingerla a trovare la propria strada anche quando si tratterà di tener testa a Bruno, personaggio alienato, fragile, solo, alle prese con i propri traumi di maschio occidentale benestante con la sindrome dell'uomo irrisolto. Al quale Pamela ha il coraggio di non piegarsi. Sulle ali della libertà.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Sola al mio matrimonio con la convinzione di trovarci davanti a un'opera prima che ha il merito di far luce su una realtà, quella della comunità Rom, poco esplorata dal cinema se non attraverso il linguaggio del documentario. Marta Bergman ha il merito di farlo ricorrendo ad un racconto di finzione e a una storia di emancipazione femminile. Fa propria la lezione dei fratelli Dardenne e affida tutto all'incandescenza della protagonista, Pamela. L'attrice che la interpreta è la vera rivelazione di questo piccolo film.
Perché ci piace
- Un'opera prima che indaga il reale e pedina i suoi personaggi senza lasciare che il racconto si appiattisca sui fatti.
- L'incandescenza della protagonista Pamela, indomita nella sua fragilità, selvaggia come un leone nella lotta per diventare una donna libera.
- La regia rigorosa che spia, esplora, indaga e il lavoro di sottrazione sui personaggi.
Cosa non va
- La mancanza di un approfondimento psicologico del personaggio comprimario e delle dinamiche alla base della relazione tra i due.