Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia...
Una metropoli nerissima, immersa in una tenebra indistinta. L'oscurità squarciata dalle fiamme che scaturiscono dalle ciminiere delle fabbriche, come una fila di vulcani in eruzione. Un'astronave si materializza nello skyline di Los Angeles in una notte di novembre del 2019. La panoramica della città, i suoi fuochi balenanti nell'ombra, si riflettono nell'iride di un occhio spalancato.
Fin dall'indimenticabile sequenza d'apertura, accompagnata dalle musiche di Vangelis, lo sguardo si configura come uno dei temi chiave di Blade Runner: la capacità di osservare il mondo, di filtrarlo attraverso il proprio punto di vista, in uno sforzo di conoscenza volto a cogliere l'inestricabile complessità del reale, mentre tutt'intorno la modernità di un prossimo futuro, distante appena un quarto di secolo, assume le sembianze di un inferno ultratecnologico in cui il Sole pare essersi eclissato per sempre.
È lo scenario, inesorabilmente cupo e di straordinaria suggestione, nel quale ci trasporta fin dalle prime sequenze il cult di Ridley Scott, distribuito nelle sale americane il 25 giugno 1982 e ora di nuovo al cinema, per gli spettatori italiani, mercoledì 6 e giovedì 7 maggio. Un'occasione per riammirare sul grande schermo un'opera che ha rivoluzionato il concetto stesso di fantascienza cinematografica, come solo pochissimi altri film sono stati in grado di fare, ma anche una pellicola che ha "vissuto due volte", con una director's cut in grado di soppiantare una versione originale significativamente differente.
Gli androidi sognano pecore elettriche?
Alla base di Blade Runner vi è un romanzo datato 1968 di uno dei 'padri' della fantascienza letteraria moderna, Philip K. Dick: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, edito in Italia anche con il titolo Il cacciatore di androidi e adattato in una sceneggiatura da Hampton Fancher nella metà degli anni Settanta. Nel 1980 il progetto viene consegnato nelle mani di Ridley Scott, reduce dal clamoroso successo di Alien, altro film seminale del genere sci-fi, e impaziente di tornare sul set dopo i continui rinvii del kolossal Dune (che sarà poi affidato alla regia di David Lynch). Scott, insoddisfatto del copione di Fancher, lo affida allo sceneggiatore David Peoples affinché apporti varie modifiche, e nel frattempo acquista i diritti del romanzo The Blade Runner di Alan E. Nourse all'unico scopo di poter utilizzare quel titolo per il proprio film.
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Forte dell'approvazione dello stesso Dick riguardo la nuova stesura dello script e l'aspetto visivo della Los Angeles futuristica descritta nel libro (Dick morirà il 2 marzo 1982, poco prima dell'uscita della pellicola), Ridley Scott raccoglie i finanziamenti necessari, ma la lavorazione di Blade Runner è tutt'altro che indolore: i rapporti fra Scott e il protagonista, il divo Harrison Ford, sono estremamente tesi (così come quelli fra il regista e la troupe), e dopo i primi test screening, non proprio favorevoli, la Warner Bros impone l'inserimento di una voce narrante da parte di Ford e l'aggiunta di un happy ending, per il quale Scott reimpiega alcune sequenze girate da Stanley Kubrick per Shining. Quando Blade Runner debutta nelle sale americane, nell'estate del 1982, i risultati sono piuttosto deludenti: penalizzato dal confronto diretto con il fenomeno E.T. l'extraterrestre di Steven Spielberg, Blade Runner registra solo ventisette milioni di dollari al botteghino nazionale, riuscendo a malapena a coprire le spese di produzione.
"Più umano dell'umano": tra fantascienza e noir
Eppure, nonostante il tiepido responso iniziale, il film di Ridley Scott ha superato a pieni voti la prova del tempo, entrando a pieno diritto nell'immaginario collettivo di un pubblico inter-generazionale. Un pubblico che, seppure in maniera tardiva, si è lasciato conquistare dal fascino imperituro della Los Angeles del 2019, che funge da teatro alla missione di Rick Deckard (Harrison Ford), ex ufficiale di polizia richiamato in servizio dal Capitano Harry Bryant (M. Emmet Walsh) e dall'ambiguo Gaff (Edward James Olmos) per un incarico di assoluta urgenza: rintracciare ed eliminare quattro replicanti, ovvero androidi dalle sensazionali doti che si sono ribellati ai loro doveri per fare ritorno sul pianeta Terra, nel tentativo di carpire al loro creatore, il dottor Eldon Tyrell (Joe Turkel), il segreto per poter continuare a 'vivere'. Il nucleo drammatico al cuore di Blade Runner si configura pertanto come la ribellione dei replicanti contro il proprio creatore: una ribellione che si intreccia alla loro forsennata lotta per la sopravvivenza, in una sorta di rivisitazione postmoderna del mito di Prometeo.
I replicanti, guidati dall'implacabile Roy Batty (Rutger Hauer), sono i Golem del futuro, le macchine in grado di provare emozioni e sentimenti; "Più umano dell'umano", come recita lo slogan della Tyrell Corporation. Talmente umani da non saper più distinguere la propria natura di replicanti, ingannati da una memoria impiantata artificialmente mediante sogni e falsi ricordi: è il caso di Rachael (Sean Young), l'assistente del dottor Tyrell, della quale Deckard, il killer di androidi, si innamora suo malgrado. Un connubio, quello fra il romanticismo disperato della loro storia d'amore e la sotterranea violenza sempre sul punto di esplodere, che caratterizza Blade Runner come un perfetto esempio di noir fantascientifico. Lontanissimo dall'epos trascinante e dal gusto per l'avventura di Guerre stellari e del filone analogo, Blade Runner accentua la sua componente noir appunto in virtù di quell'atmosfera di ineluttabile decadenza che sembra riflettersi anche sul protagonista, il quale definisce se stesso attraverso una triplice negazione - "Ex poliziotto. Ex cacciatore di replicanti. Ex killer" - ed appare del tutto estraneo rispetto al mondo circostante: un sicario non per scelta, ma per un'amara necessità ("Preferivo essere un killer piuttosto che una vittima").
Tempo di morire
Il mondo dipinto in Blade Runner, del resto, corrisponde a una fantasia distopica dominata da un cielo plumbeo e senza luce, con un gigantesco complesso urbanistico - un conglomerato di tecnologia (i maxischermi luminosi delle inserzioni pubblicitarie) e barocchismo - battuto da una pioggia perenne. Una metropoli popolata da un'umanità variegata e indifferente, in cui i grattacieli troneggiano accanto a edifici fatiscenti come l'appartamento di J.F. Sebastian (William Sanderson), solitario costruttore di giocattoli affetto dalla Sindrome di Matusalemme. Quello stesso appartamento all'interno del quale si svolgerà lo scontro conclusivo fra Deckard, Roy Batty e Pris Stratton (Daryl Hannah), replicante dall'eccentrico look in stile punk e con gli occhi cerchiati di nero (un personaggio di indubbia forza iconica). Le superbe scenografie di Lawrence G. Paull, candidate all'Oscar insieme agli effetti speciali, dimostrano un formidabile potere immaginifico: la dicotomia fra esterni limacciosi (le strade super-affollate in cui consumano sparatorie e inseguimenti) ed interni perfino più oscuri e gravidi di angoscia; fra l'incontrollabile caos urbano, sviluppato su più livelli (incluse le navicelle che sorvolano Los Angeles), e la gelida maestosità della Tyrell Corporation, una casta di tecnocrati la cui sede è costituita non a caso da un immenso palazzo di forma piramidale.
In prossimità dell'epilogo, Blade Runner si sottrae al dualismo del conflitto fra eroe e villain, suggellando la propria poesia in una delle scene più struggenti negli annali della settima arte: il faccia a faccia definitivo fra Deckard e il suo avversario Roy Batty, il quale deciderà di risparmiargli la vita per poi affidare i suoi pensieri a uno dei monologhi più giustamente celebri nella storia del cinema. La climax emotiva del film si tramuta allora in una riflessione altissima e struggente sullo scorrere del tempo, sulla caducità dell'esistenza (la natura mortale dei replicanti non è che uno specchio del nostro "essere umani"), sul valore di una memoria destinata ad essere inghiottita dall'oblio. "E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia... è tempo di morire". La fine di Roy Batty, la consapevole rassegnazione ad una sorte alla quale non ci si può sottrarre, è l'atto sacrificale che risveglia in Deckard il viscerale desiderio di rimanere aggrappato alla realtà, sempre e comunque: "Io non so perché mi salvò la vita... forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l'avesse mai amata. Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la mia vita".
Inseguendo gli unicorni: il mistero di Blade Runner
Un momento fondamentale, nella progressiva canonizzazione di Blade Runner, è stata la sua riedizione, nel 1993, in una director's cut sostanzialmente invariata nella lunghezza, ma con importanti alterazioni rispetto alla versione uscita nelle sale oltre dieci anni prima (la director's cut sarebbe poi confluita, nel 2007, in una final cut pressoché identica, distribuita con successo al cinema e in home video e riproposta ora sul grande schermo). La director's cut corrisponde infatti alla concezione più 'autentica' di Ridley Scott, emendata di quegli elementi aggiunti per volontà della Warner Bros: il voice over di Rick Deckard, una "voce interiore" che sottolineava ulteriormente il tono noir della vicenda, ma soprattutto l'epilogo speranzoso con la "fuga d'amore" di Deckard e Rachael, in un paesaggio luminoso e idilliaco che richiamava un sottotesto ecologico contrapposto alla tenebrosa megalopoli losangelina. Un finale cancellato e sostituito con la sequenza girata in origine: Deckard, in procinto di fuggire insieme a Rachael, raccoglie dal pavimento l'origami di un unicorno.
Un particolare, l'origami stretto nel pugno di Deckard prima di entrare in ascensore con Rachael, che si ricollega ad un'altra sequenza inedita comparsa per la prima volta nella director's cut: un frammento onirico corrispondente ad un sogno di Deckard, con l'apparizione di un unicorno bianco dalle nebbie di una foresta. Due brevi scene fra cui intercorre un sottile legame, capace di insinuare un atroce dubbio tanto nel protagonista, quanto nello spettatore: l'immagine dell'unicorno è forse il frutto di un ricordo impiantato nella mente di Deckard? E in tal caso, il "cacciatore di androidi" è egli stesso un replicante? Un interrogativo in grado di ribaltare totalmente l'assunto primario della narrazione, nonché di aprire nuove prospettive su un classico che ha ancora moltissimo da raccontare. Perché è proprio l'ambiguità di quel finale, e l'espressione impenetrabile dipinta sul volto di Harrison Ford, a conferire sfumature suggestive e inquietanti ad un capolavoro che, ieri come oggi, continua a sorprenderci e a emozionarci ad ogni nuova visione...