Se ne è parlato in occasione dell'ultima edizione degli Academy Awards, ma anche molti mesi prima, con il successo del cinecomic Wonder Woman, e giustamente se parla sempre di più: le cineaste si stanno conquistando uno spazio sempre maggiore in ambito creativo e produttivo, e le ultime resistenze iniziano a cedere nel momento in cui vediamo le registe (e sceneggiatrici, e cinematographer, etc.) alle prese con progetti ambiziosi e significativi dal punto di vista commerciale, tradizionalmente visti più "al sicuro" in mani maschili, come nel caso del film di Patty Jenkins.
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Una delle più importanti pioniere del cinema hollywoodiano, e la prima donna a vincere un Oscar per la migliore regia, è stata Kathryn Bigelow, una regista di cui spesso si dice che "dirige come un uomo", facendo una distinzione piuttosto discutibile tra uno stile di regia virile e visionario e uno femminile, più intimo e understated. Un po' perché interessata da sempre a personaggi femminili e alla loro esperienza del mondo, un po' perché autrice smaccatamente indie, Sofia Coppola - che insieme alla Bigelow è una delle cinque (5!) donne candidate all'Oscar per la migliore regia, è sempre stata una campionessa di questo secondo registro; e con L'inganno, in arrivo su Infinity TV, ha proposto un film in cui quella femminilità delicata, elegante e mansueta cela una elettrizzante sorpresa.
Cogliamo l'occasione dunque dell'arrivo del film, vincitore della Palma per la migliore regia all'edizione 2017 del Festival di Cannes, per fare un piccolo excursus sul riflesso dell'esperienza femminile nell'opera della regista newyorkese, partendo dal suo lungometraggio d'esordio Il giardino delle vergini suicide, per poi prendere in esame il suo maggiore successo Lost in Translation, e giungere infine all'ultimo lavoro e alle sue intraprendenti protagoniste.
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Il giardino delle vergini suicide (1999): il controllo
The Virgin Suicides di Jeffrey Eugenides è un lirico e vibrante romanzo di formazione ambientato negli anni '70 che racconta della fascinazione di un gruppo di adolescenti maschi di un sobborgo di Detroit nei confronti di cinque sorelle bionde, bellissime e destinate a togliersi tragicamente - e inspiegabilmente - la vita. L'approccio cinematografico di Coppola, che firma anche la sceneggiatura, bilancia la prospettiva tra i giovani ammiratori alle ragazze Lisbon, adolescenti normalissime ma soggette alla severità e all'isolamento di un contesto familiare ultrareligioso: in questo modo, la visione dell'adolescenza femminile viene osservata con incredibile sensibilità e acume. Le ragazze hanno le stesse pulsioni, le stesse curiosità dei loro coetanei ma non la medesima possibilità di coltivarle ed esprimerle. Soltanto la Lux di Kirsten Dunst - sempre inquadrata sulla soglia, nelle finestre, come una messaggera, un tramite tra le ragazze e i loro coetanei - dà sfogo ai propri appetiti con il belloccio della scuola, Trip Fontaine, che, dopo aver fatto l'amore con lei, l'abbandona nel campo di football della scuola.
Le ragazze Lisbon introiettano il controllo della propria indipendenza e della propria sessualità: un controllo che la società esercita in molte culture, inclusa la nostra, sul corpo femminile. Non è un caso che Cecilia, la più giovane delle sorelle, sia la prima a uccidersi subito dopo aver avuto la prima mestruazione, gettandosi dal secondo piano della casa dei Lisbon e morendo impalata da uno spuntone della cancellata di ferro, nel suo candido abito nuziale. Uno degli elementi chiave del romanzo ma anche del film è il mistero che avvolge il patto suicida delle ragazze che segue di qualche mese la morte di Cecilia, non è Coppola e neppure Eugenides a attribuire l'intera responsabilità della fine delle giovani sulla gestione familiare dei coniugi Lisbon. Ma il film pone indubbiamente l'accento sull'esperienza conflittuale della crescita e dell'insorgenza di pulsioni erotiche in un ambiente in cui si esercita un controllo più o meno efficace, più o meno pervasivo sulla sessualità femminile.
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Lost in Translation - L'amore tradotto (2004): la comunicazione
Per uscire dall'isolamento è necessaria la comunicazione, elemento cui fa scopertamente riferimento il titolo di Lost in Traslation, opera seconda di Sofia Coppola e soggetto originale, in cui la giovane regista, nel momento della crisi del suo matrimonio col collega Spike Jonze, ha voluto in qualche modo dare corpo alla propria fantasia di una relazione con un uomo molto più grande, nell'affascinante metropoli in cui aveva lavorato anni prima nell'industria della moda. Girato in appena 27 giorni con un paio di milioni di dollari di budget, Lost in Translation racconta di una coppia di improbabili innamorati platonici, la diciannovenne Charlotte (Scarlett Johansson) e il divo in declino Bob Harris, interpretato da Bill Murray. Grazie all'irresistibile Murray, particolarmente abile a sfruttare lo straniamento prodotto dalla sua presenza in un contesto esotico, Lost in Translation è soprattutto una commedia; ma la sua attenzione al malessere e alla solitudine di Charlotte, giovane dalla brillante intelligenza ma piena di incertezza per il suo futuro, rivela un'anima indagatrice e riflessiva.
Charlotte, a Tokyo al seguito del marito fotografo, che la lascia sola tutto il giorno a causa dei suoi impegni, è riservata, apparentemente fredda e sarcastica; profondamente diversa dai suoi coetanei e incapace di un'autentica comunicazione umana. Bob non è il cavaliere senza macchia che arriva cavalcando in suo soccorso, né il maschio navigato che le fa conoscere il piacere sensuale: è l'Altro, aperto, attento e disponibile, che le permette di fare un passo fuori da se stessa per attraversare sorridendo le mille luci di Shibuya, è la misteriosa, fuggevole connessione che accende il nostro riflesso negli altri, permettendoci di conoscere noi stessi.
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Sto cercando di organizzare la fuga dalla prigione. Sono alla ricerca di una specie di complice. Ci stai o no?
L'inganno (2017): l'alleanza
Dal romanzo di Thomas Cullinan The Beguiled era stato tratto nel 1971 un film abbastanza noto, interpretato da un ruvido Clint Eastwood, La notte brava del soldato Jonathan; nel realizzare il suo adattamento Sofia Coppola decide di ridurre la storia all'essenziale e di trasferire il punto di vista dallo sventurato yankee Caporale McBurney alle donne e ragazze che vivono nella Scuola per giovani fanciulle di Miss Martha Fansworth in Virginia, costrette ad accogliere e a curare il "nemico" ferito. Rispetto al film di Don Siegel, l'elemento disturbante che deriva dalla percezione da parte dell'uomo delle frustrazioni, dei desideri e delle perversioni delle donne che lo circondano e che cerca di manipolare attraverso compassione e seduzione perché non lo consegnino ai Confederati è quasi del tutto spazzato via. A Sofia Coppola non interessa granché della paura maschile della sessualità e delle vendetta femminile. Anzi, non le interessa per nulla. Le interessa la vita delle sue protagoniste barricate nel loro elegante edificio mentre fuori infuria la Guerra Civile; l'inazione, l'attesa snervante a cui sono costrette, abbandonate dagli schiavi e costrette a difendersi coi mezzi concessi alle donne, ma anche incuriosite da un uomo che le affascina e le respinge.
E ancora di più le interessa quello che succede quando si rendono conto dell'entità effettiva della minaccia. Queste donne apparentemente docili e remissive, dall'intelligente e padrona di sé Miss Martha alla piccola, astuta Amy, passando per la dolce e sensuale Edwina, superano gelosie e conflitti, imparano a fare affidamento sulle proprie forze e sulle rispettive capacità per riuscire brillantemente (e in modo piuttosto divertente, anche se non per il caporale) a togliersi dai guai. Superando, in nome della solidarietà e della collaborazione, sia la difficoltà a comunicare sia la misoginia interiorizzata (manifestata nei confronti della spumeggiante attrice interpretata da Anna Faris) della Charlotte di Lost in Translation. E così l'ultimo film di Sofia Coppola diventa particolarmente attuale oggi, nel momento in cui le donne di Hollywood (e un po' di tutto il mondo) serrano le fila e organizzano le proprie forze per liberarsi dal controllo del potere e dalla minaccia paralizzante della mascolinità tossica.