Una tragedia enorme, vissuta sulla pelle di un gruppo di uomini e donne, divenuti, nel giro di due mesi, dei veri e propri fantasmi. Partendo dalle sensazioni dei protagonisti, senza mai risultare morboso, La società della neve di J. A. Bayona racconta la storia vera (la potete leggere nel nostro approfondimento) del tristemente celebre disastro aereo delle Ande, iniziato il 13 ottobre del 1972 e proseguito fino al 23 dicembre, quando dopo un tentativo disperato - da parte di due sopravvissuti - risultò miracoloso per il salvataggio di 16 persone (su 45)
Il film, presentato a Venezia 80, e arrivato su Netflix, ripercorre i fatti in ordine cronologico (come spiegato nella recensione), partendo dal viaggio e finendo, appunto, con l'ormai insperato salvataggio. In mezzo, la dura prova di sopravvivenza messa in atto dai superstiti (una squadra di rugby urugaiana, gli Old Christians Club), avvenuto nel bel mezzo delle Ande. Freddo, ghiaccio, neve, e poi l'assenza di cibo (se non qualche stecca di cioccolata) e l'assenza stessa della speranza hanno messo in ginocchio un gruppo di persone spinte al limite (una lotta per la sopravvivenza che non ha rinunciato all'uso, pur centellinato, della carne umana proveniente dalle vittime) che, come esplica il titolo, hanno formato una vera e propria società della neve.
La società della neve, un film di speranza
Tuttavia, la speranza, che in un certo è il valore intrinseco del film di J.A. Bayona, è stata letteralmente abbracciato da coloro che hanno tentato l'impossibile, ovvero Nando Parrado e Roberto Canessa (ne La società della neve interpretati da Agustín Pardella e Matías Recalt). Sono stati loro a mettersi in viaggio per cercare aiuto, provando a raggiungere il Cile a Piedi. Inizialmente accompagnati anche da Vizintin, ma poi tornato alla base per mancanza di viveri, Parrado e Canessa impiegarono dieci giorni prima di trovare tracce umane, costeggiando il Rio Azufre, distante dieci chilometri dal luogo dello schianto. Il resto è storia: dopo aver segnalato la presenza dei sopravvissuti, vennero inviate diverse squadre di soccorso, portando in salvo, appunto, le 14 persone rimaste al campo. Nonostante la forte disidratazione, la malnutrizione e il profondo shock, le condizioni generali era pressoché discrete.
Il luogo del disastro, divenuto uno spazio di ricordi e coraggio
Il fatto, divenuto poi di rilevanza mondiale, ha continuato a far discutere negli anni. Se l'errore umano, per quanto riguarda l'incidente, è stato poi appurato, i superstiti sono tornati diverse volte sul luogo dell'incidente (oggi c'è un obelisco, eretto nel 2006 dai famigliari delle vittime), divenuto una sorta di ritrovo sacrale, e meta di escursionisti (celebre il caso del 2005, quando uno scalatore americano ritrovò una sacca e un passaporto di uno dei sopravvissuti). E i superstiti? Ovviamente, essendo all'epoca molto giovani, diversi sono ancora in vita (Sergio Catalan, uno di loro, è morto a 91 anni nel 2020). A cominciare proprio da Parrado e Canessa. In un certo senso, sono loro ad aver ereditato la storia, continuando a raccontarla, spiegandone gli aspetti psichici più che fisici.
Fernando Parrado e Roberto Canessa, oggi testimoni di una storia di compassione
Fernando Parrado, classe 1949, segnato dalla morte della madre e della sorella, successivamente all'incidente ha concluso gli studi, intraprendendo una carriera da pilota professionista, poi mollata dopo il matrimonio. Rilevò l'azienda di suo padre, diventò un volto televisivo e, soprattutto, si dedicò agli altri. Come? Affiancandosi alle persone con disturbi post traumatici. Non solo, scrisse nel 2006, insieme a Rause Vince, il libro Settantadue giorni. La vera storia dei sopravvissuti delle Ande e la mia lotta per tornare. Negli anni, Parrado ha raccontato l'esperienza in diversi documentari, programmi televisivi e speciali.
Insieme a lui, Roberto Canessa, nato nel 1953 a Montevideo. In seguito ai 73 giorni passati tra le nevi delle Ande, Canessa detto muscolo per la prestanza fisica, proseguì gli studi come cardiologo (oggi è uno stimato cardiologo pediatrico, nel 2020 è stato a capo di un team di volontari con l'obbiettivo di creare respiratori per le unità di terapia, a seguito del Covid), continuando a giocare a rugby fino al 1983, militando anche nella nazionale uruguaiana.
"Ricordo tutto di quei giorni. E oggi dico: si fa quello che si può, come sulla Cordigliera", raccontava nel 2022 al Corriere, "La carne umana? All'inizio ero contrario, poi pensando a mia madre mi decisi: volevo tornare a casa" Tutt'ora tra i più citati in relazione al disastro, Canessa si è affacciato alla politica nel 1994, candidandosi alle presidenziali. Nel 2016 ha pubblicato Tenía que sobrevivir: Cómo un accidente aéreo en los Andes inspiró mi vocación para salvar vidas, scritto in collaborazione con Pablo Vierci, già autore del libro che ha ispirato il film Netflix, che a Venezia 80 spiegò quanto "La società della neve non è un film di cannibali, ma di compassione. Siamo tutti vulnerabili. Senza solidarietà non può esserci salvezza".