Se dovessimo citare un solo genere legato a doppio filo alla tradizione e alla cultura cinematografica italiana non avremmo dubbi in merito nello scegliere la commedia. Forse legata a una concezione generalista per cui al cinema si va per "staccare il cervello", la commedia italiana nel mondo cinematografico non conosce segni di stanchezza ed è, in generale, la tipologia di film preferito dagli spettatori anche a costo di dar luce a una serie di film un po' troppo simili tra di loro e tutt'altro che indimenticabili (ma, va detto, questo è un lascito storico che troviamo anche nella produzione cinematografica di sessant'anni fa). Conflitti generazionali, qui pro quo famigliari, storie d'amore (e di tradimenti) o satire di costume: questi film presentano un loro ormai collaudato registro, non solo di scrittura ma anche visivo, in cui si cerca di seguire, più che stimolare, i gusti dello spettatore medio. Ecco perché quando nel 2014 un giovane regista di nome Sydney Sibilia si affacciò al mondo del lungometraggio con una sua prima opera dal titolo Smetto quando voglio la sensazione fu quella di aver assistito a una boccata d'aria fresca.
Sì, perché quel film, pur mantenendo l'essenzialità del genere, parlava un linguaggio moderno, rivolto ai giovani cresciuti a pane e serie tv più che al pubblico più maturo e adulto affezionato di cinema italiano (sembra un'espressione forte, ma quante commedie parlano rivolte proprio ai giovani? Pochissime oggi, figurarsi all'epoca). Quando poi nel 2017 il film diventò il primo capitolo di una trilogia con i sequel girati back to back osando a livello narrativo e inserendo pure qualche sequenza dal carattere action la rivoluzione si poteva dire completa. Purtroppo i risultati al botteghino dei sequel non premiarono particolarmente il lavoro di Sibilia e del produttore Matteo Rovere (solo poco più di 6 milioni di euro di incasso per i due film costati complessivamente più di 10 milioni) nonostante oggi si possa tranquillamente considerare la trilogia come "cult". Quel che è certo è che Smetto quando voglio osò svecchiare la commedia italiana: obiettivo riuscito o unicum nel panorama cinematografico italiano?
Il solito riso amaro
A prima vista Smetto quando voglio sembra proseguire una tradizione ben consolidata, quella di parlare dell'Italia contemporanea attraverso una visione dolceamara dei problemi che affliggono il nostro Paese. In questo caso l'attenzione è rivolta al problema dei laureati disoccupati che faticano a trovare un posto di lavoro alla fine dei loro percorsi di studio. Si ride - e anche parecchio - guardando Smetto quando voglio eppure non possiamo fare a meno di notare come, per citare un classico del cinema italiano, sia perlopiù un riso amaro. La tragedia che diventa commedia, lo sguardo, anche cinico, capace di filtrare il problema vero della vita comune per renderlo più divertente e allo stesso tempo spogliarlo. È qui che il film di Sibilia si lega alla tradizione delle migliori commedie italiane: non prende il problema della disoccupazione per costruirne una farsa, ma per metterlo in mostra seppur attraverso la risata. In definitiva, si ride perché la storia di una banda di ricercatori universitario che, senza lavoro, decidono di sbancare il lunario sintetizzando una nuova droga, per quanto esagerata e assurda ha sempre un fondo di verosimiglianza. Il protagonista Pietro Zinni, interpretato da un ottimo Edoardo Leo, è una delle figure tragicomiche che hanno il sapore di icona contemporanea, al pari di un Ugo Fantozzi negli anni Settanta, un personaggio che riflette l'immagine del laureato-tipo perfettamente inserito negli anni Duemila.
Il sorpasso alla vecchia tradizione
Ed è proprio nella costruzione di Pietro Zinni che Smetto quando voglio scopre le carte rivolgendosi perfettamente a tutti i coetanei dei protagonisti e, in generale, a tutti gli spettatori giovani che si riflettono nella loro situazione precaria e disillusa. È a loro che il film è rivolto. Questo si ripercuote nel linguaggio cinematografico e nella comicità che, oltre a essere sfruttata al meglio grazie alla qualità di scrittura dei dialoghi e dell'alchimia tra gli attori, punta spesso su citazioni, rimandi e riferimenti della cultura pop delle nuove generazioni. Ma il vero capolavoro della trilogia sta nella scelta stilistica: la fotografia acidissima dove i bianchi diventano gialli rende il look del film particolare e ben riconoscibile. C'è un lavoro nella color correction che non ha eguali all'interno del panorama delle commedie italiane, che puntano spesso e volentieri su colori naturali e, in generale, ben illuminati e che Smetto quando voglio volutamente raggira. Ha la forza e la temerarietà della celebre Lancia Aurelia B24 del film di Dino Risi a sorpassare una vecchia e stanca tradizione tacita per cui i film italiani devono rispettare un certo look, una certa scrittura, una certa comicità. Sarebbe, però, ingiusto considerare Smetto quando voglio un film che vede i modelli americani e prova a imitarli. Certo, il riferimento principale all'incredibile serie Breaking Bad è indubbio (sia dal punto di vista della storia che dal punto di vista del look fotografico) eppure Smetto quando voglio è un film di matrice al 100% italiana, può funzionare ed esistere solo all'interno dei confini del nostro Paese, con quegli ambienti, quei personaggi, quella cultura di base e, ovviamente, quei paradossi burocratici che il film denuncia e prende in giro. Non si tratta di replicare un modello americano, ma dimostrare che un altro tipo di cinema in Italia è possibile.
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Non i soliti ignoti
Tradizione: una banda di amici decide di sfidare il deludente Sistema e compiere una follia. È la base di molti film italiani di successo appartenenti alla storia del cinema, da I soliti ignoti di Mario Monicelli a La banda degli onesti con Totò giusto per dirne un paio, e il film di Sibilia potrebbe essere considerato una naturale rivisitazione di un canovaccio ben collaudato. Ciò che invece non è per niente comune alla commedia italiana è la padronanza di sfociare in sottogeneri non avendo timore di aggiungere sequenze action e girarle credendo fermamente nel risultato. Quando, con i due sequel (anche in questo caso un esperimento, quello di girarli back to back, che non ha eguali nel sistema produttivo cinematografico italiano, da quanto tempo mancava una trilogia compiuta al cinema?) Smetto quando voglio si trasforma in un heist movie (l'assalto al treno) e poi in un escape movie (l'evasione dalla prigione) non si ha mai la sensazione di assistere a qualcosa di posticcio o di poco convincente. Anzi, ci si domanda come mai nel cinema italiano non si vedano così spesso inseguimenti in auto, esplosioni o camion che si ribaltano sull'asfalto. In generale, perché si teme la forza cinetica delle immagini e del racconto attraverso il movimento, qualità intrinseca e primaria del cinema? Domanda che ci poniamo anche di fronte a un montaggio non lineare che, tra flashback e flashforward, costruisce rivelazioni, cliffhanger e svolte narrative riuscendo anche a definire una vera e propria mitologia (pensiamo al passato di Walter Mercurio, ma in generale tutta la prima parte del terzo film è un incastro narrativo straordinario). Tutte qualità che nel resto del mondo padroneggiano tranquillamente e che, forse per l'importanza che la nostra industria dà alla televisione, una finestra distributiva utilissima ma che presenta regole ferree sulla comprensibilità dell'opera e la linearità del racconto, noi non riusciamo a concepire.
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Ieri, oggi ma soprattutto domani
Abbiamo parlato di tradizione e rinnovamento della commedia italiana attraverso la trilogia di Smetto quando voglio, ma - un po' a malincuore - dobbiamo volgere uno sguardo al futuro e al lascito di questi tre film. Con una punta di tristezza mentre scriviamo queste righe dobbiamo ammettere che, ad oggi, la trilogia abbia confermato il talento di questi nuovi cineasti e produttori che hanno voglia di scommettere e cambiare dall'interno, seppur lentamente, un modello cinematografico ormai vetusto e stancante, ma che in definitiva non ha portato a una vera e propria rivoluzione. Le commedie italiane, salvo qualche eccezione, sono ben presto ritornate secondo gli standard più accettati (forse anche merito del mediocre incasso dei film all'epoca) e tradizionali. Raramente, nel panorama italiano, si fanno largo film che si contaminano col genere e sembrano osare, ma la sensazione è quella di un coraggio un po' pigro e titubante che crea degli incerti esperimenti lontani dalla consapevolezza anche un po' anarchica della trilogia di Sibilia. Al di là di questo, però, siamo convinti che un primo passo sia ben più importante di un film non realizzato e che la sfida alla tradizione per un nuovo tipo di commedia, per un nuovo pubblico giovane, per nuovi registi e cineasti, per un nuovo cinema italiano capace di inserirsi al meglio nella contemporaneità sia un atto dovuto e necessario che può solo far migliorare l'industria culturale. Nel caso di Smetto quando voglio, un po' come la serie televisiva Boris che fu un flop di ascolti diventando poi un serie di culto amata da tantissimi, possiamo dire che, nonostante i risultati di questa innovazione non siano stati vistosi nel breve termine, Sydney Sibilia e Matteo Rovere abbiano causato una frattura necessaria che, seppur in questo momento piccola e quasi invisibile, è destinata ad allargarsi sempre più.