La sensazione è strana, quasi estemporanea. Stesso luogo, stessi colori, stessi sapori. Un mix preciso, capace di creare una riconoscibilità che, almeno nella serialità italiana, mancava. Una riconoscibilità, appunto, data dalla struttura e dagli umori. Solo che 'sta volta c'è qualcosa di diverso. A cominciare dall'inizio. Un mix sincopato (al montaggio Giorgia Currà) che mostra frammenti di video che hanno come pitch gli scontri, tra manifestanti e polizia, tra schieramenti e fazioni. Si parla di violenza, fisica e verbale. Si parla di violenza mostrata sui social, una violenza che indigna, ma che poi passa. Del resto, "c'è un'altra storia da scrollare". Skam 6 inizia così, parlando di violenza politica, nonché sociale. Qualcosa è cambiato. Qualcosa sta cambiando.
Ma oltre la vena socio-politica (e Skam 6 potrebbe parlare di politica molto meglio dei politici stessi), c'è qualche altra cosa che sembra aliena, sconosciuta: ci guardiamo intorno, tutto è uguale, ma tutto è cambiato. I volti che conoscevamo ci sono, ma sono sfocati, quasi impercettibili in uno sfondo che ricalca meravigliosamente la Roma dei licei, dei drink, dei venerdì. Ci sono, ma solo quando abbiamo davvero bisogno. Insomma, all'occorrenza. Come la protagonista, Asia, interpretata dalla splendida Nicole Rossi (generazione Skam, dunque qualità), che il primo aiuto, per la sua "vergogna", lo chiede a Silvia (Greta Ragusa), che è cresciuta, che è consapevole, che fa parte di un passato narrativo a cui abbiamo affidato i nostri sogni adolescenziali. Intorno a noi, c'è lo stesso mondo, ma diverso: lo stesso mondo di Skam, pronto a (ri)cominciare. Tuttavia, dall'altra parte di Netflix, con il telecomando in mano, ci siamo noi, spaesati come al primo giorno di scuola da ripetenti.
Skam 6: prima è strano, poi è bellissimo
Chi scrive, e senza vergogna nell'ammetterlo (per restare in tema Skam Italia), quella sensazione la conosce bene: i tuoi amici sono andati avanti, tu sei rimasto indietro. In fondo, la bocciatura, più che pratica, è psicologica: affrontare lo stesso anno, in una nuova classe. Magari, in una nuova scuola (perché cambiare vuol dire maturare). Nuovi compagni di banco, nuove cene, nuove ansie, nuove cotte. Il mondo avanza, tu stai fermo. Sembra impossibile farcela, eppure, poco a poco, ti ci abitui: il tempo è relativo, ed è relativa la concezione che abbiamo del tempo stesso. I volti sconosciuti, per magia, diventano conosciuti. Quasi irrinunciabili, e chissà anche migliori nell'intesa che poi struttureremo con loro. Impariamo a conoscerli, e a farne parte.
Stesso paradigma, lo troviamo nella sesta stagione di Skam (che poi è la seconda originale, rispetto alla matrice della serie norvegese): grazie alla scrittura di Ludovico Bessegato, Alice Urciuolo e Elisa Zagaria, e grazie alla regia di Tiziano Russo, entriamo nel climax del nuovo gruppo, poco a poco, superando la diffidenza: ecco le Rebelde, che già avevamo incontrato nella quinta stagione (tra le migliori). Ecco la loro vocazione politica, il loro impegno, le loro giuste cause. Oltre, Asia, ci sono Viola (Lea Gavino), Rebecca (Maria Camilla Brandenburg), Fiorella (Benedetta Santibelli), e poi Munny (Yothin Clavenzani) e il co-protagonista Giulio (Andrea Palma). Ad incollare e sovrapporre i due gruppi, il personaggio di Elia (Francesco Centorame). Con la stessa dolcezza e la stessa completezza della sceneggiatura, siamo seduti in fondo all'aula, ma con gli occhi puntati verso il cortile: fuori, le certezze, che sono andate avanti; dentro, una nuova famiglia a cui vogliamo bene, pur non sapendolo.
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Skam è tornata: voglia di drink, e di venerdì
Del resto, Skam è sempre stata una serie di prospettive, raccontante con una naturalezza folgorante, unendo gli intenti di una cornice romana (e la fotografia di Vito Frangione riesce a puntualizzare al meglio i colori di Roma) con le caratterizzazioni dei riconoscibili protagonisti. In Skam 6 questo è ancora più acuito: il piano d'ascolto si sbilancia, andiamo a riscoprire i luoghi che conoscevamo, come se fosse la prima volta. Il tutto, avvolto da una sfumatura seria, che rispecchia un mondo spaccato: perché le storture arrivano dritte a quelle generazioni date per scontate, sottovalutate, denigrate, e che invece possiedono il senso della verità, tra l'ennesimo sbaglio e un iPhone che vibra di continuo. In Skam 6 c'è la paura di perdonare, e c'è la paura di parlare. Ma c'è pure la voglia di lottare, di provarci, di essere parte attiva di un cambiamento che vada oltre qualsiasi architrave politica, tenendo però a distanza i rigurgiti di una destra estrema mai tanto pericolosa. Del resto, la stessa vocazione politica e sociale nasce tra i banchi di scuola. Ed è fondamentale che una serie di riferimento parli in modo chiaro.
In questo senso, un'altra novità, inaspettata: Skam si fa portavoce del disagio under 20 legato ad un tessuto sociale frammentato, e dedito alla violenza. La risposta, per assurdo e per contrappasso, diventa l'ascolto, e la prospettiva (appunto) legata al cambiamento. Una riflessione che si insinua in una stagione segnata da una doppia visione: quella dei protagonisti viene sempre portata in risalto, alternando al meglio i personaggi, e resta quindi forte il nostro punto d'ascolto, che riesce a stabilire, senza nessun artificio, uno scambio e un dialogo con le Rebelde. Ed è qui che torna la percezione con cui abbiamo introdotto il nostro approfondimento: lo sguardo, prima diffidente, finisce per ammorbidirsi, lasciando i timori tipici di chi siede all'ultimo banco, pensando ancora a quegli amici con cui avevamo condiviso l'esperienza più pura della vita. Il ricordo diventa un sorriso, via via più sbiadito. E senza accorgercene, eccoci a ridere con quel nuovo compagno di banco che ci stava antipatico, pensando già alla prossima festa. Dai, che venerdì è arrivato. C'è Andrea Poggio che suona al Monk.