Finché i tuoi piedi toccano terra, dopo aver volteggiato in aria, sei un eroe; finché hai una medaglia al collo, sei un eroe. Ma se crolli, e preferisci prenderti cura di te prima di perderti del tutto, sei un perdente. Simone Biles Rising: verso le Olimpiadi nasce dal grembo di mille battaglie, perse e vinte; nasce dalla corrente di lacrime versate, da respiri rotti; nasce da uno stomaco che si contorce, e da una mente che si annebbia, impedendo di coordinare il corpo.
La serie in due puntate (ma altre sono previste in autunno) viene concepita in seguito al sopraggiungere di tanti, troppi, "twisties" (improvvisa mancanza della capacità di mantenere il controllo del corpo durante le manovre aeree), eliminando la serenità interiore per barattarla con vertigine, scombussolamento, pericolo, sia fisico che vitale.
Essere grande, sentirsi piccola
Simone Biles alle Olimpiadi di Rio 2016 era molto più di un corpo che volteggiava, saltava, faceva spaccate e volava sulla trave; Simone Biles era un portento, una scheggia, una calamita per gli occhi e un senso di rivalsa per tante bambine denigrate perché lontane dai canoni estetici della bella ginnasta. A Rio divenne la più grande. E quando sei la più grande diventi anche un raccoglitore di attese, aspettative.
Ma a Tokyo nel 2021, l'atleta si sentì piccola, minuscola, schiacciata dalla paura di deludere, pigiata e plagiata da una vocina intrusiva che le diceva che non ce l'avrebbe fatta, sarebbe caduta, che non sarebbe più stata l'inarrivabile Simone Biles di prima. E piuttosto che far vincere quella voce, ha preferito rinunciare alle Olimpiadi, fare un passo indietro e ricominciare tutto da zero.
Simone Biles Rising: verso le Olimpiadi recupera questi passaggi antecedenti alla rinascita della ginnasta, per seguirla nelle fasi che la porteranno a Parigi 2024 dove non intende dimostrare nulla agli altri, se non a se stessa; vuole provare di essere tornata, di avercela fatta, di aver combattuto i propri demoni per tornare a volteggiare come solo lei sa fare.
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Fratture esterne e fratture interne
La docuserie non è solo un'opera di montaggio atta a seguire la preparazione fisica e mentale della campionessa, quanto un tentativo di denuncia sociale sulla portata psicologica all'interno di uno sport ora molto più attento alla salute sia fisica che mentale dei propri atleti.
Ancorandosi al personaggio della Biles, la docuserie in due puntate diretta da Katie Welsh ricostruisce quel clima di coercizione fisica e mentale agita in passato sulle ginnaste (intervengono atlete olimpiche degli anni '90, come Betty Okino o Dominique Dawes, che raccontano quel periodo), dove la normalità veniva distorta e tutto si fondava su un senso dell'obbedienza, dell'abnegazione allo sport, del tenere stretti i denti e sperare che le fratture interne - più dolorose di quelle ossee - si rimarginassero, senza che nessuno si accorgesse della sofferenza subita.
Dopotutto, vedere una gamba rotta o una frattura scomposta, provoca nell'altro un'empatia diretta nei confronti dell'atleta, ma quando il tarlo del dolore è mentale, tutto si ridimensiona, complice un pensiero anacronistico che vuole la sofferenza psicologica come nulla di grave, un qualcosa che si può facilmente superare, "basta solo non pensarci".
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Celebra l'atleta, dimenticati la donna
Si tenta di sensibilizzare il pensiero comune verso un universo così complesso, ma forse mai veramente compreso, come la salute mentale. Eppure, si intromette nello spazio dei raccordi, un'estrema celebrazione del personaggio. È una costante della narrativa americana: quello di glorificare il proprio idolo, dimenticandosi del messaggio più universale che la sua esperienza poteva trasmettere.
Il discorso sotteso a tale opera sarebbe dunque arrivato più forte, se solo si fosse indugiato maggiormente sulla caduta, sulle conseguenze tanto sportive, quanto psicologiche, subite dalla Biles. Se le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi avessero colto, cioè, una donna nel momento del crollo psicologico, tutto avrebbe assunto un significato diverso.
Le verità scomode nascoste
Molto in Simone Biles Rising: verso le Olimpiadi viene toccato, sfiorato, ma mai veramente approfondito. E così, un evento traumatico, come un abuso sessuale da parte del medico della Nazionale statunitense (Larry Nassar), viene suggerito senza essere spiegato; si dà per scontato che tutti sappiano, tutti conoscano i dettagli di avvenimenti perfettamente narrati in Atleta A; è una presunzione che infastidisce, perché non si pone lo spettatore al centro dell'opera.
A poco servono le immagini che scorrono e le testimonianze raccordate in modo enfatico, epico, a tratti fin troppo drammatico. I ralenti sul primissimo piano di Simone, gli attimi di quotidianità famigliare, più che avvicinare lo spettatore a una realtà apparentemente perfetta lo allontanano, infondendo il tutto di una retorica che suscita poca empatia.
Una celebrazione che annulla l'empatia
Il dolore provato dalla ginnasta è forte, intenso, entra nelle ossa. È un dolore che accomuna una frangia di spettatori sempre più ampia, una sofferenza che unisce nell'incomprensione altrui. La visione di tale documentario poteva essere l'occasione per urlare la portata straniante, disorientante e lacerante che il disequilibrio psico-fisico può comportare.
Ma l'aver puntato sulla celebrazione di una ginnasta che ha saputo rialzarsi, in una narrazione tripartitica di dominio-caduta-resurrezione, depotenzia la forza simbolica, il potere di carattere culturale e umano presente in esso. E così, quell'aura di atleta invincibile cucitale addosso, non viene abbattuta come era previsto, ma viene piuttosto rafforzata, in un atto celebrativo dove tutto si rivolge a Simone Biles, e a Simone Biles soltanto.
Le immagini non sono più di conforto, o attimi di comprensione collettiva, ma carezze rivolte soltanto all'atleta. Tutto si perde, dunque, come una rondata compiuta a metà, lasciando che il corpo sbatta a terra e il punteggio scenda inesorabilmente.
Conclusioni
La docuserie disponibile su Netflix, per quanto riesca a porre all'attenzione dello spettatore l'importanza della salute mentale all'interno di uno sport come la ginnastica artistica, compie più che altro una celebrazione della Biles. L'enfasi sul suo essere tornata nuovamente invincibile dopo aver superato il crollo mentale, depotenzia quel carattere universale che la sua esperienza personale poteva avere e giocare sui propri spettatori.
Perché ci piace
- L'idea di raccontare il ritiro da Tokyo della Biles per denunciare l'importanza della salute mentale.
- L'uso di materiali privati e testimonianze interessanti al fine del racconto.
Cosa non va
- Il puntare su una ridondante celebrazione di Simone Biles.
- L'incapacità di suscitare vera empatia nei confronti dell'atleta.
- Il non aver indagato a fondo certi passaggi essenziali all'economia del racconto.