In occasione della rassegna cinematografica Parlare di cinema a Castiglioncello Paolo Mereghetti ha incontrato un Silvio Muccino abbronzato e sorridente, giunto a presentare il director's cut de Il mio miglior nemico, il cui DVD esce proprio in questi giorni. Ne è scaturita una lunga chiacchierata che ha permesso di ripercorrere la carriera del giovane attore romano, tra bilanci passati e anticipazioni di progetti futuri.
Silvio, tu sei uno dei pochi attori giovani che, nel panorama italiano contemporaneo, lavora di più. Che idea ti sei fatto della situazione generale dell'offerta attuale? Personalmente ti ritieni soddisfatto dei ruoli che hai potuto interpretare in questi anni?
Mi ritengo fortunato dato che ho lavorato senza sosta dai 16 ai 24 anni, al posto dell'album fotografico che ritrae i vari momenti della vita io ho i miei film. Nonostante tutto resto ancora stupito dall'accoglienza calorosa che mi viene riservata dal pubblico visto che, a 16 anni, avevo problemi di comunicazione e di relazione con gli altri. La prima persona a darmi attenzione e a giudicarmi in maniera positiva è stato mio fratello Gabriele che ha voluto la mia collaborazione per girare Come te nessuno mai. Dopo il successo del film sono tornato a scuola a testa bassa, ma proprio in quel momento è sbocciato l'amore per la scrittura cinematografica. Ho continuato a lavorare con Gabriele finché, dopo Ricordati di me, ho deciso di mettermi in gioco sul serio e sono passato dalla Fandango, che per me resta una vera famiglia, alla Filmauro. Quando mi è stato proposto la prima volta, Che ne sarà di noi era un film pesante e triste, poi lo script è stato messo in mano a Giovanni Veronesi e lui ha saputo dargli la giusta comicità.
Tra le tue interpretazioni andrebbe annoverata anche quella ne Il Cartaio, ma tutti sembrano esserselo dimenticato. Forse perché nel thriller di Dario Argento interpretavi un ruolo troppo diverso dai tuoi soliti personaggi?
Purtroppo Il Cartaio non è un capolavoro ed effettivamente molti si sono dimenticati completamente della mia presenza in esso. La mancanza che ho percepito maggiormente sul set di quel film è stato il non poter scrivere, che per me è una necessità fondamentale. Nonostante il risultato finale poco felice, considero Dario Argento un genio assoluto, uno dei pochi italiani maestri del genere horror. Il problema di Remo, il mio personaggio, è che a lui manca quella fragilità a cui io sono legatissimo e che cerco di rappresentare in ogni ruolo che interpreto. Non riesco a rispecchiarmi negli eroi e a dar loro credibilità perché sono troppo diversi da me.
Perchè ti dedichi solo al cinema e non fai teatro?
In realtà non so se ne sono capace. Sembra difficile da credere, ma la folla mi intimorisce molto. Mi viene ancora in mente il concerto del 1 maggio. Mentre ero dietro le quinte con i Negramaro, Claudio Bisio mi ha visto passando e mi trascinato con sé sul palco. Sono riuscito a dire si e no due parole, ma volevo morire. Se ci ripenso ora mi vengono ancora i brividi. Paradossalmente, dietro lo schermo della macchina da presa mi sento protetto.
Scriveresti per altri registi senza poi apparire nei film in questione?
Non credo. La scrittura è una forma metaforica e la metafora, in letteratura, viene usata prevalentemente per parlare di sé. Io in questo momento sento l'esigenza di parlare per me stesso e non per altri. Trovo un grande piacere ad affidarmi agli altri registi, ma ho bisogno di avere una protezione, di sviluppare un rapporto amoroso con la storia e i personaggi e questo mi riesce solo collaborando allo script.
Sei reduce dal successo di Il mio miglior nemico. Com'è stato lavorare con Carlo Verdone?
Di Verdone mi ha stupito la sensibilità. Lui aveva un progetto preciso in mente e mi ha chiamato perché voleva che portassi dentro il film il mio modo di pensare, il mio essere attore. Non voleva solo una spalla. Progettava uno scontro generazionale e mi ha offerto un'occasione meravigliosa lasciandomi ampia libertà, nonostante all'inizio fosse molto spaventato dal modo in cui intendevo rappresentare certe situazioni del film, in particolare il conflitto irrisolto con mia madre.
Non credi che, oltre ai sentimenti autobiografici, il cinema dovrebbe affrontare anche temi meno soggettivi, più importanti a livelli globale?
Per quanto mi riguarda racconto costantemente temi universali come l'amore, la paura, il dolore, l'abbandono, ma lo faccio non da un punto di vista estraneo, esterno, ma nel modo più vero, più solido e più vicino a me. Cerco il mordente in quello che scrivo e lo ottengo solo parlando di ciò che conosco perfettamente.
Pensi di dedicarti alla regia in futuro?
Di regista in famiglia ce n'è già uno che, tra l'altro, fa questo mestiere piuttosto bene. A differenza della scrittura, la regia richiede una grande consapevolezza tecnica che non si improvvisa. Io ho girato dei videoclip perché mi piace sperimentare, giocare con la macchina da presa, ma i veri registi usano il mezzo cinema per creare un proprio linguaggio e solo in pochi ci riescono pienamente. Attualmente io non riesco a proiettarmi nel futuro o a progettare un percorso. Costruire una carriera è una delle cose che mi angoscia di più perciò tendo a pensare solo al futuro prossimo. Quando penso al domani l'unica cosa certa è che so che scriverò.
Nonostante il grande successo di Manuale d'amore, è trapelata la notizia che non farai parte del cast del secondo episodio. Come mai?
Avevo paura a rifare lo stesso film così sono preso del tempo per riflettere. La mia scelta sarà sicuramente criticata da molti, visto che quasi tutti gli altri attori hanno riconfermato la loro presenza, ma dopo aver interpretato Orfeo (ne Il mio miglior nemico), rifare il personaggio di Manuale d'amore avrebbe rappresentato un piccolo passo indietro, mentre io sento il bisogno di cambiare, di sentire che la mia carriera fa dei piccoli passi avanti, di trasformarmi.