Ci sono film che sembrano realizzati per dare il massimo a un'unica prima visione. Film dove, una volta arrivati al finale, si ha l'impressione di aver colto ogni dettaglio, ogni sfumatura della trama, che non si ha la tentazione di far ripartire da capo. I peggiori di questi non stimolano a farlo nemmeno a distanza di tempo. Non è il caso di Shutter Island, l'ennesimo ottimo film (per quanto sicuramente non rientri nella parte alta della sua filmografia) di Martin Scorsese, un film stratificato che, nonostante abbia in sé tutte le risposte dell'intrigo, sembra invitare lo spettatore a ricominciare da capo, nello stesso loop infinito in cui è bloccato il protagonista interpretato da Leonardo DiCaprio. È un thriller psicologico che gioca con lo spettatore, che mette a dura prova la fiducia dei personaggi e dello stesso narratore. Un film che, una volta arrivato alla naturale conclusione (anche se viene da chiedersi se ci sia davvero una conclusione), potrebbe svelare nuovi aspetti e chiavi di lettura a una seconda, terza, quarta visione. Perché in una storia che ha a che fare con la maniera in cui si osserva e si interpretano il mondo e la propria realtà, rivedere Shutter Island non è un invito a comprendere meglio l'intreccio narrativo scritto originariamente dal romanziere Dennis Lehane, ma la possibilità stessa di cambiare il proprio punto di vista e leggere nei comportamenti dei personaggi e nei dialoghi un nuovo strato di realtà. Ecco che una spiegazione del finale Shutter Island, a prima vista così chiara e lineare, si contorce su sé stessa rendendo necessaria l'attenzione ai dettagli delle visioni seguenti.
Nebbia, luce, acqua e fuoco
Prima di ogni cosa c'è la nebbia. Una nebbia fitta che lascia intravedere, man mano che ci viene incontro, la sagoma di un traghetto. In quel traghetto ci sono gli agenti federali Edward Daniels (Leonardo DiCaprio) e il suo nuovo collega Chuck Aul (Mark Ruffalo) diretti a Shutter Island, per indagare sulla scomparsa di Rachel, una paziente dell'ospedale psichiatrico dell'isola, l'Ashecliff Hospital. Daniels sta soffrendo il mal di mare e non vede l'ora di arrivare sulla terraferma. Una volta sbarcati vengono accolti da un gruppo di guardie armate: già si percepisce un forte senso di minaccia. I pazienti dell'ospedale psichiatrico sono, infatti, criminali pericolosi e l'idea che una di loro sia riuscita a fuggire misteriosamente causa parecchia agitazione. Durante il corso dell'indagine Daniels avrà modo di scoprire, poco alla volta, i misteri dell'isola e di quel luogo, sarà tormentato dagli incubi legati a un amore perduto che gli farà visita e da momenti traumatici del suo passato. Acqua e fuoco duellano durante tutta l'indagine, sia nel mondo reale che nel delirio mentale di Daniels. Rachel ha, infatti, annegato i propri figli; l'isola è circondata dall'acqua del mare; spesso la vicenda si svolge sotto un diluvio violento la cui acqua riesce ad entrare attraverso porte, finestre e tetto. E nei sogni, Daniels rivede sua moglie Dolores, morta in un incendio provocato da un piromane che è proprio ricoverato in quello stesso ospedale psichiatrico. La luce, invece, è simbolo della verità: i lampi di luce che illuminano le stanze e il volto di Daniels quando i suoi incubi lo portano sempre più vicino alla realtà delle cose; la luce del faro, luogo misterioso che Daniels cerca di raggiungere per uscire definitivamente dalla nebbia che lo avvolge (ricordiamo l'inizio del film: Daniels arriva con un traghetto e la luce del faro serve proprio a guidare le rotte delle navi). Non è un caso che la verità verrà dichiarata proprio all'interno del faro, nel punto più elevato.
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Traumi: sogni e ferite
"Lo sapeva che la parola trauma viene dal greco, vuol dire ferita. E qual è la parola tedesca per sogno? Traum, ein traum. Le ferite possono creare mostri, e lei, lei ha tante ferite, agente."
Qual è la verità? Daniels non è (più) un agente federale e, in realtà, non si chiama nemmeno Daniels. È invece un paziente dell'ospedale psichiatrico, in cura da ormai due anni. Due anni in cui ciclicamente ripropone la stessa recita, incapace di superare il trauma dell'uccisione della moglie Dolores - nomen omen - che aveva a sua volta ucciso i loro tre figli. Il suo vero nome è Andrew Laeddis, proprio come il piromane che andava cercando nel corso del film (ed è lui quel piromane), era un ex-agente federale che non si è più ripreso dallo shock e il suo collega Chuck è, in realtà, il dottor Sheehan, messo al suo fianco per controllarlo e tenerlo a bada mentre prosegue la solita recita. Il primario dell'ospedale, il dottor Cawley, ritiene che per curare i pazienti sia necessario comprenderli e, anziché praticare loro una lobotomia o riempirli di farmaci, fare in modo che loro stessi siano in grado di superare naturalmente il trauma che li ha resi "diversi". Ecco allora che la dimensione onirica in cui Daniels/Andrew si ritrova con la moglie era il dolore mai sopito di una ferita che continuava a pulsare, rendendolo pazzo. Nomi che si confondono (Rachel è sia una paziente scomparsa per finta e ora dottoressa, sia un'ex dottoressa e ora paziente in fuga, anagramma del nome della moglie morta, sia il nome dell'unica figlia di Andrew) e numeri che rivelano altri significati (il paziente numero 67 scritto nel biglietto è proprio lui e 4 sono le identità reciproche Daniels/Andrew e Dolores/Rachel) Un loop infinito che, anche questa volta, non trova soluzione. Come tutte le volte, infatti, Andrew capisce la sua situazione grazie all'intervento dei dottori, ma velocemente dimostra di essere tornato punto e a capo.
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Ciclo infinito di dolore
E così dovrebbe fare lo spettatore: ricominciare da capo e rivedere il film con occhi nuovi. Ci si rende conto, allora, di quanto la percezione della realtà sia distorta e il film sia pieno di piccoli dettagli che traslano il significato dell'opera stessa. Torniamo all'inizio, all'arrivo di Daniels e Chuck sull'isola: le guardie che li accolgono non sono più armate per la faccenda di Rachel, ma per l'arrivo dello stesso Daniels, presentato nel corso del film proprio come il più pericoloso paziente dell'ospedale. Quella che sembrava una sicurezza per la minaccia già presente nell'isola è in realtà una difesa alla minaccia che all'isola ci è appena arrivata. E poco dopo, l'incapacità di Chuck di togliere la pistola dalla fondina mal si adatta al comportamento di un agente federale che, invece, sarebbe perfettamente capace di farlo: è una delle prove che dimostrano come non sia quello che dice di essere. Di esempi di questo tipo, nel corso del film, se ne possono trovare molti: occhiate tra personaggi (notate come una paziente guarda Chuck quando si parla del dottor Sheehan), comportamenti e gesti (Chuck è sempre pronto a intervenire per bloccare Andrew, cerca sempre di stargli addosso) o anche a frasi a doppio senso che, una volta saputa la verità, acquistano tutt'altro sapore. È il caso delle infermiere che rispondono alle domande di Andrew in maniera sarcastica, poco adatto come comportamento verso un vero agente federale, o a certe frasi pronunciate da altri personaggi ("Sì, ti conosco bene" dice una guardia ad Andrew). Un gioco che diventa via via più divertente riguardando il film che, anche a livello di grammatica cinematografica e di linguaggio si diverte con noi. A prima vista sembra essere tutto normale, ma con un po' di attenzione e uno sguardo attento, si può notare come il montaggio di Thelma Schoonmaker, la veterana collaboratrice di Martin Scorsese, sia abbastanza problematico. Personaggi che cambiano spesso di posizione, azioni che si interrompono o che cambiano da un'inquadratura all'altra, brevi e quasi impercettibili buchi narrativi: non sono errori, ma una vera e propria scelta stilistica che si sposa perfettamente con un narratore impreciso e problematico, lo stesso Andrew. Raccontando il film dal suo punto di vista problematico, il film stesso diventa una ferita da rimarginare. Sta allo spettatore cercarne la luce e uscire dalla nebbia.
Rimarginare le ferite o perdersi totalmente?
Perché un film che sembra rispondere a tutte le domande già subito a una prima visione, con la lunga confessione del dottor Cawley e le rivelazioni che colpiscono nel finale Andrew e lo spettatore, necessita di ulteriori visioni? Come fosse uno scherzo, l'ultima battuta del film pronunciata dal protagonista cambia di nuovo tutte le carte in tavola, riportando nella nebbia del mistero una storia che sembrava essere conclusa. Andrew Laeddis sembrava guarito e, invece, ritorna a riferirsi al dottor Sheehan chiamandolo Chuck come il suo collega fittizio. Andrew è, quindi, incapace di guarire, di rimarginare le proprie ferite, di sorpassare i propri traumi? Oppure, semplicemente, non vuole? Quell'ultima frase, quella domanda ad alta voce "Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da uomo per bene?" ha una strana connotazione. Forse Andrew è lucido, è guarito, ma sa che, una volta uscito dall'isola, i sensi di colpa e i traumi del passato tornerebbero a fargli visita spingendolo fino alla morte? Forse preferisce continuare a recitare la parte del malato per continuare a vivere, seppur rinchiuso in un loop infinito e in un ospedale psichiatrico? Probabilmente Andrew preferisce la sicurezza all'interno di una dimensione malsana e terribile (ricordiamo che è confinato in un'isola, quindi circondato dall'acqua, l'elemento naturale in cui sono morti i suoi figli) che una vera e propria fuga. Un doppio finale che varia in base a cosa decidiamo di credere, se è un momento di lucidità o un ritorno infelice a una crisi mentale. Non resta che ricominciare da capo la visione, cogliere altri segnali, guardare oltre alla ricerca di ennesimi strati narrativi e, chi lo sa, magari arrivare al finale e cambiare di nuovo punto di vista. Per cercare una risposta certa, siamo tutti costretti a rivivere un ciclo infinito, un trauma che forse, più che una ferita, è un sogno.