È interessante come il thriller risulti essere spesso uno dei migliori "generi collanti" per riuscire a parlare dei grandi eventi storici. Un tono che ha infatti la capacità di raccontare storie attraversando formati differenti (immagini d'archivio e fiction), legarsi ad altre sfumature come la love story o il coming of age e raccontare vicende in grado di farsi metafora di logiche e tematiche ben più rilevanti rispetto agli eventi narrati.
In questo caso Shoshana utilizza il thriller politico per portare in scena uno spaccato inedito della difficile Storia della Palestina, dagli inizi del '900 fino alla proclamazione dello Stato di Israele al termine della Seconda Guerra Mondiale. Il film di Michael Winterbottom ha alle spalle un grande lavoro di ricerca e documentazione (iniziato nel 2007) e prende spunto dalla storia vera della figlia (che dà il titolo al film) di Ber Borochov, uno tra i più importanti teorici del sionismo socialista, per poi arrivare a parlare di una difficile convivenza che sta drammaticamente distruggendo una parte del mondo.
Ne esce fuori una pellicola eclettica, appassionante e in grado di ragionare sul contemporaneo riducendo la complessità della Storia, senza per questo svilirla, anzi, riuscendo a porre la lente d'ingrandimento nelle zone più rappresentative. Un lavoro di dimostrazione: in una qualsiasi storia possiamo trovare la natura umana, e allo stesso modo in un conflitto ci può essere il passato e il presente.
Shoshana, la trama: la giornalista e il poliziotto
Shoshana Borochov (Irina Starshenbaum) è una convinta sionista e innamorata del sogno paterno di ricostruire una patria per il suo popolo, in pace e condivisione con la componente araba. Lei e la sua famiglia sono arrivati a Tel Aviv dall'Ucraina poco dopo la fine della Prima Guerra Mondiale insieme ad altre migliaia di persone (negli anni '30 si arriverà, più o meno, mezzo milione di esuli). Quello che hanno trovato era un Paese meraviglioso, ma dall'anima scissa e apparentemente senza alcuna prospettiva di un'unione futura.
All'epoca, con enormi difficoltà, le fila venivano tenute dai britannici (forza occupante del Paese fino all'avvento degli americani dopo il Secondo Conflitto Mondiale e la successiva instaurazione dello Stato di Israele), che dal canto loro cercavano di mediare tra le due parti sempre più agguerrite, chiudendo un occhio ogni tanto per non alterare troppo degli equilibri degni di una polveriera in procinto di esplodere.
In questo contesto Shoshana è cresciuta ed è divenuta una giornalista d'assalto, un'idealista convinta e un membro dell'Haganah, una formazione paramilitare clandestina. Insomma, premesse perfette per una persona che si innamora di un membro della sezione antiterrorismo della polizia inglese, tale Thomas Wilkin (Douglas Booth), coinvolto per di più nell'indagine per fermare l'Irgun, un altro gruppo segreto (molto più aggressivo) guidato da Avraham Stern (Aury Alby), un poeta sionista. Ad affiancarlo nell'impresa Geoffrey Morton (Harry Melling), specialista nella repressione trasferito a Tel Aviv dai piani alti proprio per porre fine alle violenze. A qualunque costo. Ricetta perfetta per un'escalation che cambierà per sempre la storia del Paese.
Un lavoro di allegorie
L'origine della pellicola è prettamente storica, tant'è che Shoshana inizia con una serie di immagini presi dai cinegiornali dell'epoca per narrare la Storia della Palestina e ricostruire anni e anni di tensioni tra ebrei e arabi e, allo stesso tempo, raccontare il periodo più buio del colonialismo inglese sul territorio. Il voice over che accompagna la visione è però della protagonista e nelle immagini piano piano compaiono i volti degli attori, creando la prima sfumatura di una pellicola che proprio di sfumature vive.
La vicenda narrata alterna i punti di vista, in questo modo Michael Winterbottom e i due co-sceneggiatori, Laurence Coriat e Paul Viragh, creano una cornice dinamica e coinvolgente (anche se non sempre tarata al millimetro) elevando la potenza semantica del registro del film. Tuttavia, il focus rimane sempre quello della guerra, intesa non solo come conflitto armato, ma anche come una divisione dell'anima di un Paese logorato da tante posizioni differenti, anche all'interno della medesima popolazione. Allegoria ben congegnata che si collega al presente ed ha la sua perfetta metafora nella storia d'amore tra i protagonisti, impossibile proprio perché tra due persone dalle posizioni politiche inconciliabili.
Il proseguo dell'indagine fa da riflesso agli avvenimenti storici in sottofondo in modo da creare un file rouge esplicativo di come la violenza non può che portare alla violenza, arrivando a corrompere anche coloro che hanno cercato sempre di combatterla. Per questo il volto di Shoshanna cambia man mano che il minutaggio va avanti, divenendo lo specchio della vicenda di un popolo destinato a non trovare mai la pace.
Conclusioni
Nella recensione di Shoshana vi abbiamo parlato della pellicola con cui Michael Winterbottom si affaccia alla storia del conflitto israelo-palestinese attraverso un thriller politico aperto alle commistioni con altri generi e pensato per accogliere registri differenti. Un film non sempre settato alla perfezione, ma dinamico, coinvolgente e riuscito nel suo lavorare per allegorie, riuscendo a riflettere anche sul presente.
Perché ci piace
- L'utilizzo del thriller politico.
- La storia raccontata è inedita e interessante.
- La capacità di parlare per allegorie e metafore.
Cosa non va
- I continui cambi di passo rendono il film dinamico, ma più sfuggente.
- Delle prove attoriali non sono perfettamente all'altezza.