Volevo dire che io le mani addosso non gliele ho mai messe, non l'ho toccato. Io quella sua dolce testolina santa non la toccherei nemmeno con un dito. Io lo amo quel mio figlietto di puttana!
Siamo entrati come ospiti e non ne siamo usciti mai più. Ci siamo barricati nelle stanze maledette, siamo rimasti bloccati nei bagni rosso sangue, rinchiusi nelle dispense, persi nei labirinti. Gli spettatori entrano in sala come ospiti di un rito collettivo, ma se quel rito si chiama Shining è facile diventarne prigionieri. Perché non basta una chiave di lettura ad aprine ogni camera e svelarne ogni mistero. Non serve chiudere gli occhi per sfuggire al suono orticante dell'orrore più puro. A 37 anni dalla sua uscita, l'horror delirante di Stanley Kubrick ci appare ancora più ispirato e tremendo nella sua messa in scena spietata della follia e della frustrazione.
Senza perdere un briciolo della sua disturbante inquietudine, senza smettere di respingere e accogliere con i suoi volti corrotti e le sue sequenze morbide, Shining brilla ancora e ancora attraverso tutta la vivida luce della sua luccicanza, qualsiasi cosa essa sia. Delirio o estrema lucidità? Alterazione della realtà o troppa verità? Come detto, non se ne esce. Il terzultimo film del maniacale Kubrick è un groviglio forse inestricabile di simbologia e oscuri presagi, un nodo strettissimo dentro cui si nascondono favole nere, una visione nichilista della famiglia e dell'essere umano, una riflessione amara sull'egoismo degli uomini, sul destino di solitudine e alienazione dei creativi e persino (secondi i più fantasiosi complottisti) una metafora sul finto allunaggio girato dallo stesso Kubrick. Attraverso Shining abbiamo imparato che il freddo, i coltelli e le parole hanno una cosa in comune: possono essere taglienti. Capolavoro affilato e spietato, Shining torna in sala per chiuderci di nuovo a chiave dentro di lui.
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Lo farà dal 31 ottobre al 2 novembre, in occasione dei 40 anni dell'omonimo romanzo di Stephen King da cui è ispirato il film. Ispirato perché Kubrick se ne è allontanato e servito per portare avanti la sua visione disillusa dell'uomo, con buona pace di Stephen King, non a caso critico e perplesso nei confronti dell'opera cinematografica. Per chi scrive non è stato facile tornare tra le gelide mura dell'Overlook Hotel. Perché chi scrive lo ha visto per sbaglio, per un tremendo errore di valutazione di una madre che mise suo figlio di spalle al televisore senza considerare uno specchio davanti ai suoi occhi. Madri, specchi, traumi infantili. Insomma, c'è tanto Shining nella prima volta in cui chi scrive ha visto Shining. Oggi, però, vogliamo fissare quattro coordinate (luoghi, suoni, volti, generi) per provare ad orientarci dentro i lunghi e angusti corridoi di questo capolavoro. Una piccola guida per visitare al meglio l'oscuro hotel kubrickiano e tornare a gustarne gli orrori nell'unico posto riservato ai grandi film: il grande schermo. Perché poter vedere o rivedere Shining al cinema è come pernottare per mesi in una suite presidenziale al prezzo di un biglietto al botteghino: un meraviglioso e imperdibile lusso.
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Un labrinto nel labirinto del labirinto
Inizia tutto in maniera stridente. Presagio di quel che sarà. Una panoramica morbida su uno splendido scorcio naturale. Montagne, laghi, verde incontaminato. Eppure in sottofondo sentiamo una musica carica di inquietudine e di suoni oscuri, simili ad una marcia funebre. Sin dalla memorabile sequenza d'apertura, seguiamo il viaggio della famiglia Torrance, un'automobile che viaggia verso il suo destino di isolamento, un nucleo familiare non è altro che un misero puntino giallo in uno spazio immenso. Shining resta un caso esemplare di spazio narrativo, dove i luoghi raccontano senza dire nulla. L'Overloook Hotel è molto più di un albergo disabitato assediato dal gelo, perché si eleva a luogo simbolico, a purgatorio dove realtà e immaginazione coabitano in ogni singola stanza. Cos'è quell'albergo?
È la mente instabile di un uomo? È la fantasia macabra di un bambino? Non avere una risposta certa è parte del fascino immutato di un film dove i luoghi non solo restituiscono un senso di profonda solitudine e di crescente angoscia, ma diventano habitat per un continuo disorientamento. Al di là dell'evidente messaggio fornito dal labirinto di siepi in cui Jack Torrance rimane intrappolato, anche i movimenti dei personaggi all'interno dell'hotel non sembrano avere sbocchi. Emblematiche le tre sequenze del piccolo Danny sul triciclo, cariche di ansia e di curiosità, mentre la moquette ipnotica dell'Overlook fa presagire un lento disgregarsi della realtà verso un incubo gemellare. La scenografia di Shining è un gentile invito a perdersi, a fare del labirinto una forma mentis in cui padri, madri e figli sono destinati a separarsi, allontanandosi poco alla volta dalla razionalità.
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Il suono del delirio
Provate a difendervi da Shining. Provate a mettere le vostre mani davanti ai vostri occhi, come fa Danny davanti alle due gemelline, e sarà comunque arduo uscirne indenni. Merito di un comparto sonoro sovraccarico di malessere, e non ci riferiamo soltanto alla colonna sonora martellante, lenta, piena di note stridule e opprimenti, ma al lavoro meticoloso svolto da Kubrick con vari suoni all'interno del film. Ci riferiamo alla continua sospensione nel vuoto delle voci dei personaggi, all'echeggiare impazzito del battere a macchina di Jack, al rumore della palla con cui questo padre inizia a giocare con la propria follia, e poi ancora a quello scorrere delle ruote del triciclo sul pavimento, il suo passare dal suono più ovattato di tappeti e moquette a quello più netto del marmo e del parquet. Da buon perfezionista, Kubrick eleva il sonoro ad arma più o meno inconscia per dimostrare che l'orrore e gli incubi non vivono soltanto di urla.
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Il volto beffardo del Male
Un ghigno perenne, i capelli arruffati, le sopracciglia arcuate, lo sguardo attraversato da un malessere antico. Il volto di Jack Nicholson è la tela instabile sulla quale Kubrick dipinge il suo capolavoro horror. E non è un caso che la faccia famelica e sadica di Torrance, incastrata dentro quello squarcio nella porta, sia diventata il simbolo prediletto di Shining. Quell'accetta ha davvero dilaniato la quarta parete e reso tangibile un malessere raccontato dallo sguardo spietato di un regista che ha fatto della violenza il tema cardine di un'intera carriera. Però, il male di Shining è diverso da tutti gli altri messi in scena da Kubrick, talmente ben radicato nel suo protagonista da diventare indomabile e inevitabile. Se Arancia meccanica prova a reprimere la violenza e Full Metal Jacket ci ha mostrato come "educarla", in Shining il germe del male affiora poco alla volta senza possibilità di difesa; siamo sopra un piano inclinato dove ogni cosa è destinata a precipitare. Tutto si gioca sul volto sempre più provato di un eccezionale Nicholson (doppiato magistralmente, va ricordato, da Giancarlo Giannini). È un male che disturba, perché si insinua dentro un posto di solito rassicurante come la famiglia. Un rifugio che qui diventa prigione, che tocca i figli impauriti dai padri e dispersi nei loro mondi immaginari, le madri spaesate e poi costrette a reagire. Il male di Shining non è lontano in guerra, non è disperso per le strade, è accanto a noi, nascosto nella nostra paura più grande: veder cambiare le persona che amiamo.
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Wendy, tesoro, luce della mia vita. Non ti farò niente. Solo che devi lasciarmi finire la frase. Ho detto che non ti farò niente. Soltanto quella testa te la spacco in due! Quella tua testolina te la faccio a pezzi!
L'orrore fluido
Non esiste un cinema più conflittuale di quello di Stanley Kubrick. Un cinema abitato dall'inquietudine, da temi sporchi e balordi, eppure dotato di rara eleganza formale nella messa in scena. Shining non fa eccezione, anzi grazie al perfezionamento definitivo della steadicam, Kubrick esaspera sia le sue inquadrature geometriche che la fluidità delle sue immagini. Per questo Shining risulta, infine, un horror assolutamente atipico. Laddove l'horror si è spesso distinto come un genere segmentato da un montaggio frenetico e frammentato dai jump scare, Shining impone un incessante fluire di immagini morbide, esaltate dal piano-sequenza. È possibile girare un horror puro senza giocare con il buio, ma mostrando tutto alla luce; è possibile centellinare il sangue e la violenza sovraccaricando di tensione un pubblico logorato dalla loro inevitabile apparizione. È possibile trovare la grandezza di un film nelle sue zone ancora buie. Che cos'è Shining? Un racconto di luoghi infestati? Una metafora sui labirinti della follia? La storia di una tragedia non troppo lontana dalla cronaca nera? È forse questo il vero terrore. Non avere tutte le risposte, non essere accarezzati dalla Ragione, non capire. Ad ognuno i propri mostri.