Recensione Days of being wild (1991)

Con questo secondo film, che segue di due anni il noir "As tears go by", Wong Kar-Wai cambia genere e registro, anticipando temi e soluzioni di regia che troveremo in molti dei suoi lavori successivi.

Sentimenti e nichilismo

Con questo suo secondo film, che segue di due anni l'esordio del 1989 con il noir As tears go by, Wong Kar-Wai cambia genere e registro, e anticipa temi e soluzioni di regia che troveremo, sviluppati e aggiornati, in molti dei suoi lavori successivi. E' l'amore, il tema principale di Days of being wild, amore doloroso, logorante e spesso autodistruttivo, ma pur sempre necessario per tutti i personaggi coinvolti, che trovano nel rapporto con l'altro desiderato (e spesso in fuga) motivo di definizione o istanza di cambiamento. La storia, ambientata nella Hong Kong degli anni '60, racconta del giovane Yuddy (interpretato dal magnetico Leslie Cheung), ossessionato dall'idea di conoscere l'identità dei suoi veri genitori dopo aver appreso, dalla donna che pensava essere sua madre, di essere stato adottato. Il giovane conduce con la madre adottiva (una ex-prostituta, spaventata dall'idea dell'abbandono del figlio adottivo) una battaglia psicologica che logora lentamente entrambi, mentre due donne entrano, in momenti diversi, nella sua vita; ma Yuddy non potrà che scacciarle, incapace di dare alla sua vita una stabilità che egli non solo non conosce, ma rifiuta con forza.

Come in quasi tutti i suoi film successivi, Wong intreccia al plot principale altre linee minori e sottotrame, componendo un affresco in cui sono, appunto, i sentimenti (primitivi, incontrollabili e spesso pericolosi) ad assurgere a veri protagonisti. Cinema che immerge la sua sostanza nel melò, quindi, "asciugandolo" della componente più prettamente patetica e lasciando che a parlare siano gli sguardi, le parole e le pulsioni dei personaggi, senza mediazioni da parte di una regia che kubrickianamente sceglie il più delle volte di "farsi da parte", assumendo un punto di vista neutro rispetto alle vicende trattate. Lo sfondo è quello di una Hong Kong dolcemente malinconica, con le strade vuote o solcate dalla pioggia, dal gusto retrò: una facciata ben diversa da quella, più caotica, che il regista ci proporrà nei successivi Hong Kong Express e Angeli perduti, e che si avvicina molto più a quella (quasi contemporanea) del celebrato In the mood for love. E al penultimo film di Wong quest'opera seconda è assimilabile anche per la regia, sempre controllata e giocata costantemente "a sottrarre", che lascia alle tonalità di colore soffuse, immerse in una penombra fortemente simbolica, della fotografia di un maestro come Christopher Doyle (da allora presenza fissa nei lavori del regista), il compito di rappresentare anche a livello visivo le pulsioni dei protagonisti. Protagonisti che rispondono più che bene alla sfida di un film che "chiede" molto agli attori, in cui i silenzi e le pause sono forse più significativi dei dialoghi, grazie anche a un lavoro di direzione del cast più che accurato: al già citato, e mai troppo rimpianto, Leslie Cheung, si affiancano le due fragili controparti femminili Maggie Cheung e Carina Lau, e gli ottimi Jacky Cheung ed Andy Lau, con il personaggio di quest'ultimo (un poliziotto solitario che fa amicizia con la prima ragazza del protagonista) che giocherà un ruolo fondamentale come controparte adulta, ma in fondo, allo stesso tempo, "specchio" seppur deformato della personalità dell'inquieto Yuddy.

Solo nel finale, in cui il film fa una decisa e inaspettata "virata" verso il noir, il regista concede qualcosa al gusto del pubblico, specie quello hongkonghese: ma va detto che, se da una parte una concessione del genere era inevitabile (stiamo parlando pur sempre di un film in cui recitano alcune delle star più amate del panorama cinematografico cantonese) dall'altra essa si attiene perfettamente al climax del film, portando la vicenda a una conclusione più che coerente con le sue premesse.
Un'opera seconda in cui Wong ha proseguito il suo discorso autoriale, quindi, che di nuovo parte da un genere (qui il melodramma) per compiere una ricerca (sui sentimenti, sulle pulsioni, sul mal di vivere) del tutto personale e assolutamente originale all'interno del panorama cinematografico di Hong Kong. Una ricerca ancora oggi "viva" e foriera di risultati artistici di assoluto livello.

Movieplayer.it

3.0/5