Vi è una speciale categoria di film che, nella storia del cinema, sono divenuti progressivamente dei riferimenti assoluti, sia per altri registi che per i semplici appassionati del grande schermo. Opere che spesso definiscono un genere e vengono apprezzate in ogni loro aspetto. Tra queste, vi è certamente Sentieri selvaggi, pellicola diretta da John Ford, giunta nelle sale statunitensi il 26 maggio del 1956.
The Searchers (titolo originale del film), è ambientato nel Texas degli anni seguenti alla Guerra di Secessione, mentre la lotta tra bianchi e nativi d'America volgeva al termine anche ad ovest del fiume Mississippi. Protagonista John Wayne, qui in uno dei ruoli più complessi della sua carriera, frutto della sintonia straordinaria con il regista (con il quale collaborò in ben ventuno occasioni) e di una sceneggiatura che contribuì ad arricchire le sfumature della trama e dei personaggi, rendendolo molto più che un classico western. Fondamentale è l'impronta di John Ford, che contraddistingue ogni tratto del film con superba maestria.
Andiamo dunque a riscoprire nel dettaglio Sentieri selvaggi, a distanza di sessantacinque anni dalla sua uscita nelle sale statunitensi: l'apice del cinema western, un capolavoro senza tempo.
Cercando Debbie
Texas, 1868. Ethan Edwards (John Wayne) torna a casa a distanza di tre anni dal termine della guerra civile. Nessuno sa cosa abbia fatto in questo periodo ma appare certo come egli abbia accumulato una consistente somma di denaro in monete d'oro. Ad accoglierlo trova il fratello Aaron (Walter Coy) e la cognata Martha (Dorothy Jordan), con la quale ristabilisce subito una delicata affinità; insieme a loro anche i nipoti Lucy, Ben e la più piccola Debbie. Ma vi è anche il figlio adottivo Martin Pawley (Jeffrey Hunter), un ragazzo in parte pellerossa di nascita, verso cui Ethan nutre un malcelato astio.
Egli, infatti, appare duro ed estremamente provato da anni di lontananza, oltre a covare un profondo disprezzo per gli indiani, in particolare i temibili Comanche, che rappresentano la principale minaccia per i pionieri che cercano fortuna nelle praterie texane.
Il giorno dopo, arriva dagli Edwards il capitano e reverendo Clayton (Ward Bond), per metterli in guardia rispetto a una banda di razziatori di bestiame che stanno depredando la vallata. Così, gli uomini della zona organizzano un'esplorazione per capire di chi si tratti, e ad essi si unisce anche Martin, desideroso di mostrare a Ethan il proprio valore. Al calar del sole, però, Ethan e gli altri comprenderanno come siano caduti in una trappola tesa dai Comanche: far allontanare tutti gli individui armati dalle abitazioni, per poi colpirle durante la notte. Al loro ritorno, Ethan e Marty troveranno la loro casa distrutta, Aaron, Martha e Ben uccisi e Lucy e Debbie rapite. Non resterà altro che andarle a cercare, inseguendo i Comanche guidati dallo spietato capo Scout (Henry Brandon). Insieme a loro due resisterà solo il giovane Brad Jorgensen, innamorato di Lucy. La quale, però, verrà ritrovata seviziata e uccisa poco più avanti, portando il ragazzo a farsi a sua volta ferire a morte dagli indiani. Dopo essere già sopravvissuti ad uno scontro, Ethan e Marty proseguiranno la ricerca di Debbie, un inverno e un'estate dietro l'altra. Ad attendere il ragazzo, nel frattempo, vi sarà la giovane Laurie (Vera Miles), l'altra figlia degli Jorgensen...
Lungo i Sentieri selvaggi di John Ford
La complessità dell'antieroe fordiano
Scritto da Frank S. Nugent (che aveva collaborato con John Ford in opere quali I cavalieri del Nord Ovest del 1949 e Un uomo tranquillo del 1952) e tratto dal romanzo di Alan Le May, Sentieri selvaggi ha come personaggio centrale quello di Ethan Edwards, magnificamente interpretato da John Wayne, l'eroe per antonomasia del cinema americano della Golden Age. In questo film, però, il leggendario attore non impersonò, come accaduto molte volte in passato e accadrà altre volte in futuro, una figura positiva, o comunque da considerare prevalentemente con tale accezione.
Il suo ritorno in famiglia, avvolto dal mistero, allunga un'ombra sulle azioni effettivamente intraprese da Ethan tra la fine della guerra e il periodo successivo. Inoltre, la rudezza nei confronti di Martin - la cui sola "colpa" sarebbe essere "pellerossa per un ottavo", come egli stesso dirà - sembra del resto affiancarsi a un profondo risentimento verso i nativi d'America, vero ostacolo che i conquistatori del west trovavano giungendo nelle nuove e inesplorate terre. Sono ampiamente sufficienti tali premesse per far comprendere come non ci si trovi di fronte a un protagonista tradizionale, il quale ha per di più un rapporto non idilliaco con il fratello e qualcosa di non detto con la cognata, verso cui mostra un affetto assolutamente particolare.
Dopo la strage per mano dei Comanche, Ethan verrà spinto dalla vendetta e dall'odio, dando seguito all'infinita lotta tra bianchi e pellerossa, che ha contraddistinto tragicamente la storia americana per oltre un secolo ed è stata narrata ampiamente dal cinema. Sebbene non fosse ancora giunto il periodo nel quale il western divenne revisionista, con pellicole quali Il grande sentiero (1964), Piccolo grande uomo (1969), Soldato blu (1970), Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (1972), fino al celebre Balla coi lupi (1990), Sentieri selvaggi non si pone, come erroneamente pensato da molti, sull'epica accusatoria che divide il campo in buoni e cattivi, dove questi ultimi sono sempre e comunque gli indiani; piuttosto, propone una riflessione su come entrambe le "fazioni" fossero contrapposte inevitabilmente nell'impossibilità di sancire una pace che nemmeno i nuovi Stati Uniti cercavano convintamente. Da una parte la furia dei pellerossa, dall'altra quella dei conquistatori. Ma a cosa ha portato una guerra senza fine? Nient'altro che a una distruzione reciproca, proseguita per lunghissimo tempo.
Il punto di osservazione del film non è infatti quello che segue il percorso che porterà Ethan a vendicarsi di Scout, ma i lunghi sforzi che lui e Martin dovranno compiere per ritrovare Debbie, ormai cresciuta e dedita alle tradizioni della tribù Comanche. Anzi, arriverà un punto nel quale il racconto si sposterà proprio su Marty, che diverrà narratore con una lettera inviata all'inquieta Laurie. Così, ciò che conterà davvero, oltre il dolore che essi hanno dovuto sopportare, sarà riabbracciare Debbie, dopo tanti anni di logorante attesa. Arriverà il giorno nel quale i fucili e le pistole non spareranno più, e le nuvole lasceranno spazio al sole di una ritrovata serenità.
Nel personaggio di Ethan, dunque, si riscontrano di certo le caratteristiche ampiamente conosciute del pistolero infallibile, ma anche una complessità innovativa per il periodo nel quale Sentieri selvaggi arrivò sugli schermi. Per tutta la durata dell'opera, quasi non si riesce a comprendere fino in fondo i sentimenti reali del personaggio, cosa lo spinga a compiere le azioni che intraprende, perché non voglia accettare la presenza di Martin accanto a sé, e a cosa sia dovuto realmente l'odio verso i pellerossa, finché tutto non sarà finalmente chiarito.
Il merito di tale, difficile definizione va tanto alla visione di Ford e alla scrittura quanto alla prova di Wayne, affiancato per l'occasione da altri interpreti di riconosciuto talento come Jeffrey Hunter (attore che avrebbe meritato maggiori opportunità), Vera Miles (che avrebbe confermato anche negli anni seguenti le proprie qualità), Natalie Wood (nel ruolo di Debbie ormai adolescente) e l'esperto Ward Bond, celebre caratterista del cinema fordiano. Ma il finale, magnifico e indimenticabile, porterà a compimento la redenzione di Ethan, perché sarà quello il momento nel quale tornare veramente a casa. Eppure non definitivamente.
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La firma inconfondibile di John Ford
La prima inquadratura di Sentieri selvaggi coincide anche con l'ultima: si apre una porta, se ne chiude un'altra. Al centro, vi è Ethan Edwards. Quando arriva, in sella al proprio cavallo, e quando andrà via, dopo aver compiuto la propria missione, mentre osserva una nuova felicità dinanzi a sé. È un tema ricorrente nel western americano: il cavaliere solitario che non ha mai pace, destinato a vagare da un luogo all'altro per poi concedersi brevi periodi in quella che si potrebbe definire "casa".
L'epopea del West, del resto, ha avuto come protagoniste persone che hanno viaggiato per tutta la vita, ritenendosi fortunate nel caso riuscissero a stabilirsi in un posto, trovando la possibilità di costruire un futuro per la propria famiglia. Ma vi è anche tanta solitudine in pistoleri e cowboy che non potevano legarsi a nulla, appesi com'erano a un filo sottile fluttuante tra la vita e la morte. Nel cinema di John Ford basterà citare altri due esempi, oltre l'Ethan di The Searchers: lo sceriffo Wyatt Earp di Sfida infernale (1946), interpretato da Henry Fonda; e il crepuscolare Tom Doniphon di L'uomo che uccise Liberty Valance (1962), impersonato ancora da John Wayne. Pur partendo da presupposti differenti, tutti e tre hanno dei tratti che impediscono loro di non essere altro che uomini d'azione: chi per ripristinare la giustizia in terre nelle quali il più forte sovrasta inevitabilmente il più debole (Earp), chi per ritrovare parte di quello che sembrava aver perso (Edwards), chi per far parte al progresso e a una nuova società ma senza dover rinunciare al proprio orgoglio e ai propri principi, uscendo lentamente di scena (Doniphon).
In Sentieri Selvaggi non mancano poi le riprese esterne nell'iconica Monument Valley, alle quali si aggiungono quelle in Colorado e nella provincia dell'Alberta in Canada. Soprattutto la prima, situata tra Arizona e Utah con le sue caratteristiche guglie rocciose, è divenuta un simbolo del cinema western, restituendo un'idea della grandezza di quei territori così lungamente esplorati e teatro della storia alle origini dell'America, pur con tutte le sue contraddizioni. La Monument Valley verrà utilizzata anche dal cinema italiano e in particolare da Sergio Leone in C'era una volta il West (1968), che renderà omaggio a John Ford e ai suoi film girando parte del suo capolavoro proprio in quegli stessi luoghi.
Con la fotografia di Winton C. Hoch (vincitore di quattro Oscar in carriera), attraverso il montaggio di Jack Murray e con la magnifica colonna sonora di Max Steiner, John Ford completò una pellicola che è stata rivalutata nel tempo, per giungere a un'unanime definizione di capolavoro per le ragioni che abbiamo cercato di raccontare in questo nostro approfondimento. Caposaldo per tantissimi cineasti (Steven Spielberg rivede regolarmente l'opera per trarne ispirazione), Sentieri selvaggi è un diamante (reso brillante da uno sfavillante Technicolor) che va apprezzato in ogni singolo fotogramma: in ciascuno di essi si ritrova l'essenza del cinema, e la firma inconfondibile di un maestro inimitabile.