Quando Mattia Torre se ne è andato, troppo presto, nel 2019 un'intera generazione è rimasta orfana di uno dei suoi simboli più vivaci e scaltri. Una penna graffiante e ironica che dissacrava luoghi comuni e fissazioni dell'italiano medio, e inchiodava al potere demistificatorio della risata i meccanismi della tv italiana. La stessa che oggi ne celebra il genio portando su Rai3 sei tra le sue opere teatrali più famose, Sei pezzi facili. L'onere e l'onore di ridargli vita sul piccolo schermo a partire dal 19 novembre e per cinque sabati consecutivi alle 22 è del Premio Oscar Paolo Sorrentino. Ma guai a considerarlo semplice "teatro in televisione": Sorrentino entra in punta di piedi nel teatro di Torre, per la precisione all'Ambra Jovinelli che è sempre stato il suo teatro, lo filma e lo rende fruibile allo spettatore abituato al mezzo televisivo.
Un'operazione unica che fa dell'ibridazione tra teatro, cinema e intrattenimento il proprio vero punto di forza. A interpretare i personaggi della serie tornano in scena gli attori scelti da Torre: ritroviamo così Valerio Mastandrea in Migliore (19 novembre), Geppi Cucciari in Perfetta (26 novembre), Valerio Aprea in In mezzo al mare e Gola (il 17 dicembre) e poi in compagnia di Paolo Calabresi in Qui e Ora (il 3 dicembre), e infine Giordano Agrusta, Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino e Carlo De Ruggieri in 456 (il 10 dicembre).
Il teatro di Mattia Torre in tv: una ibridazione di linguaggi
Un lavoro voluto fortemente da Francesca Rocca, la moglie di Mattia Torre, è stata lei a chiederlo a Paolo Sorrentino tenacemente convinta che quegli spettacoli dovessero finire da qualche parte perché la gente li vedesse in televisione, "il teatro era la sua casa e il mezzo televisivo, che amava e odiava allo stesso tempo, era con il suo enorme bacino di utenza una grande festa". Per il regista di È stata la mano di Dio, Sei pezzi facili ha sempre avuto un unico obiettivo, "amplificare e valorizzare la cassa di risonanza del teatro di Mattia Torre". Per realizzare questa strana creatura che mette abilmente insieme i diversi linguaggi dell'audiovisivo, Sorrentino si è affidato a "una regia con dei minimi appigli cinematografici e una vaghissima ibridazione del teatro con il cinema", e ci tiene a precisare: "Non mi sono limitato a fare quello che si è visto per molti anni del teatro in televisione, cioè di una rappresentazione molto piatta del teatro, ma ho cercato di movimentarlo un po' rispettando sempre e comunque quello che aveva in testa Mattia, che aveva delle idee molto precise su come dovevano essere i suoi spettacoli. Ho cercato di intervenire senza minimamente alterare quelle decisioni. Il suo teatro è totalmente autosufficiente e compiuto".
Al punto da non avere bisogno di "chissà quali interventi, se non quelli di ritmo cinematografico da declinare in televisione". Per Valerio Mastandrea, che aprirà la serie, "è stato un viaggio sentimentale, ognuno ha fatto il suo e ci ha messo dentro quello che sentiva e provava. Verso il teatro ho una specie di amore e repulsione, e Mattia è quello che mi ha fatto venire questo binomio di sentimenti, non facevo questo spettacolo da cinque anni e questa è la prima volta che lo faccio senza di lui. È stato un insieme di cose, anche se l'idea di confrontarsi con un linguaggio diverso da quello di una messa in scena filmica ci ha generato un po' di angoscia, ma Paolo è stato capace di starci vicino, senza essere invasivo". Una sensazione condivisa anche dal collega Paolo Calabresi, "quel famoso 'teatro in televisione' aveva bisogno proprio di questo per essere fruibile, cioè che la grande macchina cinematografica entrasse dentro lo spazio dello spettacolo insieme agli attori. È stata un'assenza-presenza, uomini e donne di cinema ci sono stati accanto come ombre silenziose".
Torre come De Filippo
Non c'era bisogno né di set ricostruiti, né di altri orpelli: il teatro di Torre andava solo filmato. "È un autore contemporaneo, un classico come Eduardo De Filippo; quando le cose non funzionano si supporta con la fantasia - spiega Sorrentino - ma se funzionano non è necessario, altrimenti si rischia di diventare ridondanti e retorici. Uscire dallo spazio teatrale e fare qualcosa che assomigliasse a un film con degli ambienti sarebbe stato necessario se ci fossimo trovati di fronte a dei testi deboli o degli attori così, così. Qui invece era tutto l'opposto: i testi sono molto forti e ben congegnati, gli attori straordinari. Il mio ruolo è stato semplicemente trovare gli angoli, le inquadrature giuste e un ritmo televisivo che combaciasse nel miglior modo possibile con quello teatrale di Mattia".
Tra contemporaneità e temi universali
La forza dei sui testi? Quella di sapersi muovere "su temi profondi, delicati e per certi versi anche paurosi" e di essere "un teatro comico molto libero e contemporaneo, non schiavo delle derive degli ultimi tempi, libero nell' uso delle parole, mai offensive anche quando possono sembrarlo, appassionato e coerente nei toni" - continua il regista premio Oscar: "Torre era un grande indagatore di vizi e miserie, ma ci ricorda sistematicamente che possiamo amarle, riusciva cioè ad amare, a valorizzare le miserie umane e a metterle in scena". Perché in fondo "di quella miseria lui faceva parte e la raccontava", ricorda Mastandrea, "non giudicava da lontano, ma si metteva dentro ciò che scriveva e ne rideva, il più grande gesto di autoironia. Scrivere per lui era una fatica enorme, perché era un pensatore rapidissimo, violentissimo ed efficacissimo, la scrittura era tornare indietro, elaborare e dare comicità, verve o drammaticità a quello che raccontava. La sua originalità consisteva nel saper raccontare degli esseri umani e delle situazioni di cui si sentiva responsabile pur non essendolo, questo rende i suoi spettacoli dei classici contemporanei". Un teatro che andrebbe guardato, dice Valerio Aprea, "con lo stesso spirito con cui si guarda Boris, perché il materiale è lo stesso: una comicità irrinunciabile, rivoluzionaria e straordinaria mai fine a se stessa".