Che il panorama televisivo italiano abbia bisogno di una bella rinfrescata non è un segreto per nessuno. Obbedendo all'esigenza di svecchiare i contenuti, senza però inimicarsi l'audience più conservatrice, Mediaset ha deciso di puntare su un genere capace di incontrare le simpatie del pubblico più vasto possibile, ma anche di regalare qualche emozione in più rispetto a quelle cui i melodrammi di casa nostra ci hanno abituato. Del contenitore 6 passi nel giallo fanno quindi parte sei pellicole a sé stanti, unite dall'identità di genere, il thriller, così come dai rimandi al cinema italiano degli anni Settanta, all'autorialità di Mario Bava e Antonio Margheriti, di cui qui scendono in campo figli (Lamberto Bava e Edoardo Margheriti) e nipoti (Roy Bava). Il responsabile della fiction Mediaset, Giancarlo Scheri, e il produttore Raffaello Monteverde hanno presentato una carrellata di trailer di questo nuovo esperimento televisivo, orientato a un mercato non soltanto italiano ma anzi soprattutto internazionale, come dimostra la scelta di girare in inglese e di ambientare molte delle pellicole fuori dai nostri confini. Con Lamberto Bava (regista, tra gli altri, anche dell'episodio di esordio della serie, Sei passi nel giallo - Presagi, in onda mercoledì 22 febbraio), Edoardo Margheriti e diversi membri dei cast, forti di nomi molto amati dal pubblico televisivo nostrano, abbiamo commentato gli intenti della produzione e degli autori.
Giancarlo Scheri: Con questo progetto abbiamo voluto realizzare una fiction all'italiana che però fosse anche un prodotto esportabile, internazionale: un esempio di come si possa fare della fiction vendibile anche sul mercato estero. Per fare ciò è innanzi tutto importante puntare su generi apprezzati anche fuori dai nostri confini, e il giallo ne è un esempio, ma anche girare in inglese, e in questo caso abbiamo trovato degli attori italiani molto bravi a recitare in una lingua che non era la loro.
Raffaello Monteverde: Mi sono messo in questa operazione con mia moglie e con il nostro partner americano, la Dolphin, con cui stiamo realizzando anche altri progetti, cercando di seguire le orme dei tarantiniani, quel genere che ha fatto epoca negli anni Settanta. Questo prodotto è nuovo, si tratta in pratica di una collana, ed è composta da sei film, a mio avviso splendidi.
Edoardo Margheriti: Non posso che dire lo stesso. In più devo anche ringraziare perché mi sono stati messi a disposizione degli attori straordinari, primi fra tutti Adriano Giannini e Katrina Law, che sullo schermo hanno creato un'alchimia straordinaria, senz'altro in grado di fare presa sull'audience italiana. Ma sono molto contento anche della ricchezza delle scene d'azione: mi è sembrato di lavorare come per il cinema. Dei sei film della serie ne ho visti quattro, e tutti mi sembrano girati con cura cinematografica, con una ricchezza e un ritmo a cui speriamo che il pubblico si abitui presto e risponda con entusiasmo, anche per poter osare ancora di più.
Adriano Giannini: La cosa che mi ha interessato più di tutto è stata la sceneggiatura, che aveva un taglio più americano per quanto riguarda sia il ritmo che la scrittura. La combinazione con uno stile registico anni Settanta, la commistione di questi due diversi linguaggi, ha aggiunto un altro livello di interesse.
Roberto Zibetti: Io sono presente in due film, entrambe le volte in un ruolo da antagonista. L'idea di lavorare in un contesto televisivo allo scopo di alzarne la qualità in realtà non è nuova, è già stata messa in atto negli Stati Uniti una ventina di anni fa, in corrispondenza della prima crisi del cinema e della conseguente espansione del cable. Anche oggi in America fanno film televisivi che sembrano destinati al pubblico cinematografico. In Italia i contenuti li abbiamo, siamo magari carenti dal punto di vista formale, del contesto, ma questo mi sembra un buon punto di partenza per migliorare.
Giorgia Surina: Voglio solo dire che sono lusingata per aver lavorato ad un prodotto di così alta qualità. Il mio personaggio, cosa rara per la televisione, era scritto molto bene, la sceneggiatura era egregia, molto attenta al dettaglio, ed è stato un onore per me prendere parte al progetto.
Ana Caterina Morariu: Io ho imparato immediatamente a guidare sulla destra, e in più ho corso per tutto il film, non mi facevano mai stare ferma. Ho anche tirato fuori la mia sensualità, che per me è stato un bello scoglio, ma sapevo di essere in buone mani. Vedere questi trailer mi ha fatto venire voglia di recitare ancora, non vedo l'ora. Come e quanto è cambiato il modo di fare paura sullo schermo, rispetto agli anni Settanta? E come avete tenuto conto della lezione dei vostri padri? Lamberto Bava: Io avevo già fatto due serie per Mediaset, e quindi avevo già dimestichezza con il formato televisivo. Non credo che sia cambiato il modo di fare paura rispetto agli anni Settanta, perché la paura è insita nella storia. Certo in televisione è più difficile che al cinema, perché non sei in una sala buia, hai il telefono e tutto il resto. In Sei passi nel giallo - Presagi però ho avuto più che altro il problema di non fare troppa paura, perché la storia di un serial killer di bambine poteva essere troppo forte per un pubblico televisivo: è importante tenere conto di coloro ai quali è rivolto il film, altrimenti potrebbero sorgere dei problemi. Io, ad esempio, che sono facilmente emozionabile, ho avuto davvero paura negli ultimi venti minuti! Non credo quindi che la differenza stia in una questione tecnica, o di ripresa, credo che rispetto a qualche anno fa ora si scrivano storie con più cervello, si scelgano meglio gli attori, si faccia un lavoro più duro. Ma la cosa più importante, in tutti i film, è sempre la storia. Ricordo che mio padre, ai suoi tempi, doveva spesso rimaneggiare la sceneggiatura, perché arrivava sul set con grossi problemi: ma cambiare in corso d'opera non è mai una scelta positiva, è decisamente meglio prepararsi bene e risolvere ogni dubbio prima di iniziare a girare.
Giancarlo Scheri: Si, uno dei nostri obiettivi era quello di fare paura, ma non troppo: quel tanto che bastava a non far allontanare il pubblico, che è quello generalista, composto da famiglie.
Perché scegliere una location insolita come Malta?
Raffaello Monteverde: Intanto, proprio perché è insolita. Io ho fatto diversi sopralluoghi insieme ai registi e me ne sono innamorato, tanto da ambientare lì quattro pellicole, mentre le restanti due hanno location italiane. Io ho girato dappertutto per girare e posso dire che variare è un bene.
Lamberto Bava: Inoltre Malta è stata il set di film grandiosi, come Fuga di mezzanotte o Il gladiatore.
Perché non scegliere di distribuire la versione inglese, che dai trailer sembrava molto più convincente di quella italiana, e di sottotitolarla? Giancarlo Scheri: Il nostro pubblico ancora non è pronto, taglieremmo fuori una fetta troppo grande dell'audience generalista. E' un esperimento che si potrebbe invece tentare sui canali digitali, ma su Canale 5 è prematuro e chiuderebbe ogni possibilità di fare grandi ascolti.
Come pensate di risolvere il problema di un prime time che ha bisogno di innovazione? Giancarlo Scheri: Il coraggio lo stiamo dimostrando proprio attraverso questo progetto, così come con Il tredicesimo apostolo, e quindi la voglia di innovare c'è. Ma bisogna tenere conto che il nostro pubblico deve essere il più largo possibile, e quindi dobbiamo stare attenti a calibrare le dosi.Non siete stanchi di essere etichettati come tarantiniani, considerato poi che è stato Tarantino a rifarsi al cinema degli anni Settanta?
Lamberto Bava: Tarantino per me è un amico, e oltre a questo è il personaggio che ha fatto riscoprire al mondo i registi della generazione di mio padre. L'ultima volta che l'ho incontrato mi ha detto che il film che preferiva tra quelli diretti da me era Blastfighter, che io non mi ricordavo nemmeno di aver fatto! E' un grande onore quindi essere accostati a lui, anche perché quando Tarantino mette qualcosa di nostro nei suoi film è sempre ripensato, tanto da diventare sublime.
Edoardo Margheriti: E poi Tarantino è il primo ad ammettere di aver imparato dai nostri film, così come Joe Dante è uno dei più grandi estimatori di Mario Bava. Quindi questo parallelismo non può dare fastidio, anzi ci onora, perché ha contribuito a riportare sulle prime pagine i registi di genere, ha fatto riscoprire un modo di fare cinema di grande avanguardia.