Recensione Frozen (2010)

Il film di Adam Green gioca abilmente con l'ansia dei personaggi e dello spettatore, mantenendo come punto fisso il realismo di una messa in scena che ha già in sé gli elementi per creare tensione: i paesaggi innevati apparentemente sconfinati, la notte che lentamente scende a gelare il sangue e la pelle, i lupi che si aggirano famelici, la mancanza di presenze umane tutt'intorno ai protagonisti.

Seggiovia della morte

Tre giovani snowboarders in un impianto sciistico, in un fine settimana. Una seggiovia che dovrebbe portarli in cima per un'ultima discesa, prima del ritorno a casa. La seggiovia che all'improvviso si ferma, le luci che si spengono. Il buio, il gelo, la vertigine dell'altezza. La totale impotenza nell'agire. E la prospettiva di trovare una morte tra le più orribili, bloccati tra le montagne, con la tempesta di neve che frusta impietosa i corpi e nessun'anima viva intorno. Sembra essere l'essenzialità, la nuova cifra stilistica di un cinema thriller-horror che fa leva sulle paure più ataviche e rifugge gli elementi sovrannaturali, con il realismo della messa in scena che diventa caratteristica fondante. La claustrofobia del recente Buried - Sepolto, il canyon che si trasforma in tomba a cielo aperto nel premiato 127 ore, di Danny Boyle. In questo Frozen, l'essenzialità è negli elementi che compongono l'intreccio, ma anche nella narrazione e nei personaggi. Il regista Adam Green (che si muove in altri territori rispetto a quelli del suo Hatchet, datato 2006 e già cult) asciuga gli elementi narrativi del suo film fino al punto di disinteressarsi del background dei personaggi, poco più che stereotipi. I due amici d'infanzia divisi dalla fidanzata del più serio e responsabile tra loro, immancabilmente imborghesito e incapace di staccarsi da lei (anche per quella che doveva essere un'escursione tra maschi); l'altro amico incapace di crearsi un rapporto stabile, e con un rancore mal celato per la ragazza. I personaggi sono un pretesto, semplici figurine: ma acquistano una loro tridimensionalità quando si tratta di avere a che fare con l'orrore, di trovarsi di fronte alla semplice necessità di sopravvivere.


Con tre soli attori per la gran parte dei 90 minuti di film, e una regia che alterna piani ravvicinati sui loro volti e totali di un paesaggio che diventa fonte di un orrore atavico, il film di Green punta tutte le sue carte sulle reazioni dei personaggi a una situazione estrema. Lasciatasi davvero alle spalle la vita di tutti i giorni, posti di fronte alla semplice scelta tra lottare e soccombere, i tre protagonisti agiscono in modo credibile e diventano naturale fonte di identificazione per lo spettatore: il regista indaga nel loro stato d'animo, dà la giusta enfasi all'alternanza di tensione, speranza e sconforto sui loro volti e nei loro comportamenti. Aiutato in questo dalle tre buone prove attoriali di Kevin Zegers, Shawn Ashmore ed Emma Bell, il film gioca abilmente con l'ansia dei personaggi e dello spettatore, mantenendo come punto fisso il realismo di una messa in scena che ha già in sé gli elementi per creare tensione: i paesaggi innevati apparentemente sconfinati, la notte che lentamente scende a gelare il sangue e la pelle, i lupi che si aggirano famelici, la mancanza di presenze umane tutt'intorno. Non c'è bisogno di particolari trovate registiche (o dell'estetica da videoclip un po' furba, ancorché efficace, di cui Boyle ha infarcito il succitato film) per restituire il senso di un orrore totalizzante che lentamente si impadronisce dei tre: basta saper utilizzare gli elementi che si hanno a disposizione, tra cui un set naturale e straordinariamente funzionale in cui, non a caso, lo stesso Green ha preteso che si girasse l'intero film.

Il regista ha dichiarato più volte che il suo vero amore cinematografico (non a caso citato anche, affettuosamente, in una battuta del film) è Steven Spielberg, autore che in gioventù gli avrebbe illuminato la strada, facendogli capire il tipo di cinema che voleva fare. In questo film, in effetti, non sono assenti echi del cinema di Spielberg, ma specie di quello dei primi anni, più cupo, che ha avuto nell'indimenticato Duel il suo manifesto teorico più esaustivo. Più in generale, nel film di Green si rinvengono echi di una prassi cinematografica forse dimenticata, in cui all'essenzialità della messa in scena si univa una regia solida e d'effetto, e una sceneggiatura semplice quanto funzionale al coinvolgimento emotivo dello spettatore. Così, la credibilità della situazione da cui muove il film (che comunque, lo ripetiamo, rappresenta poco più di un pretesto) passa in secondo piano rispetto a un'ora e mezza di tensione altissima, con sviluppi narrativi anche coraggiosi in alcune scelte che, specie nelle prime battute, lasceranno stupito più di uno spettatore. E se, alla fine, Frozen non diventerà forse (come ha auspicato Green) "il nuovo argomento tabù tra gli sciatori", è facile che comunque, guardando una pista di sci e una seggiovia, la mente correrà per un attimo alle sue immagini. Per un giovane regista, in questi tempi di innocui pop-corn thriller, è un risultato sicuramente non da poco.

Movieplayer.it

4.0/5