"Non auguro a nessuno di dover guardare la persona che si ama attraverso un vetro". Inizia così, durante un abbraccio tra due amanti, Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk), il nuovo film di Barry Jenkins, tratto dal libro di James Baldwin, presentato alla Festa del Cinema di Roma e nominato in tre categorie agli Oscar 2019. A parlare è Tish, giovane afroamericana innamorata di Alonzo, detto Fonny. Lui è in carcere, in attesa di giudizio, per un crimine che non ha commesso, ed è attraverso il vetro dei colloqui che vediamo i due innamorati, di cui parleremo approfonditamente in questa recensione di Se la strada potesse parlare, mentre sono impegnati in una discussione importante. Lei ha appena scoperto di essere incinta: dovrà affrontare la gravidanza da sola, e al tempo stesso lottare, con la propria famiglia, per scagionare Fonny. Siamo negli anni Settanta, ad Harlem, Manhattan.
Non è un altro Moonlight
Se la strada potesse parlare è un film piuttosto atteso. È il primo lungometraggio di Barry Jenkins ad arrivare nelle sale dopo il sorprendente Oscar vinto da Moonlight, un film che, qui in Italia, avevamo visto per la prima volta proprio alla Festa di Roma. Come Moonlight, anche Se la strada potesse parlare è un film molto parlato e, come quello faceva intendere la sua natura teatrale, questo fa intendere la sua natura letteraria. Si tratta, però di due film molto diversi.
Se la strada potesse parlare è un film meno di impatto, meno schematico, meno costruito a tavolino di Moonlight, che ingabbiava un po' le emozioni in quella struttura tripartita (tre capitoli caratterizzati dai tre nomi che il protagonista assumeva, tre identità per tre fasi distinte della sua vita). È un film con una trama che scorre in maniera piuttosto naturale, alternando senza strappi la vicenda principale e i flashback, lasciando ampio respiro alla storia e soprattutto all'anima dei personaggi. Il risultato è quello di riuscire a entrare più in empatia con i protagonisti, appassionarsi alle loro storie e ai loro sentimenti.
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Barry Jenkins ama i suoi personaggi
Barry Jenkins, d'altra parte, dimostra di amare i suoi personaggi, li tratta con un'incredibile affetto e tenerezza. Guardate la scena della "prima volta" di Fonny e Tish: il regista, come il protagonista, sembra volersi prendere un'estrema cura della sua Tish, trattarla con tutto il pudore e la gentilezza che merita. E puoi fare questo solo se ami un personaggio. Se la strada potesse parlare è raccontato con un tono tutto sommato pacato, mite, per l'argomento che racconta. È come se i personaggi che si muovono nel film abbiano capito che le battaglie contro le ingiustizie e quell'"uomo bianco" che spesso le perpetra ai danni della comunità afroamericana si facciano amandosi e sostenendosi a vicenda, più che battendosi con rabbia contro un sistema contro il quale sei destinato a perdere. "I rapporti che costituiscono il fulcro del film sono caratterizzati da quell'incantevole poesia degli scambi interrelazionali che, per la gente di colore, funge da paraurti rendendo l'esistenza meritevole di essere sopportata, rendendo la promessa infranta del sogno americano degna degli sforzi necessari al suo perseguimento" scrive Jenkins nelle note di regia. E tutto, nel suo film, va in questa direzione. Anche il personaggio, bianco ed ebreo, che sta per affittare loro casa, in realtà un vecchio magazzino dismesso, alla domanda perché volesse fare del bene a due persone di colore, risponde "mi piacciono le persone che si vogliono bene: neri, verdi, viola, non ha importanza per me".
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Lo dice anche Michael Moore
Il proprietario dello stabile, il giovane avvocato, la titolare di un negozio di alimentari sono delle persone bianche che, di volta in volta, dimostrano buon cuore verso i due. La loro presenza evita al film di essere manicheo. Il vero nemico, a parte un vendicativo agente decisivo nelle accuse verso Fonny, è più un sistema "kafkiano", una serie di ingranaggi per i quali le persone di colore vengono sempre incastrate in situazioni più grandi di loro dalle quali è difficile uscire. Vediamo questo film dopo aver visto Fahrenheit 11/9, il film di Michael Moore che ci dice le stesse cose dell'America oggi, anche a parecchi anni di distanza dai fatti di questo racconto. "La partita è truccata e la corte lo sa" dice Tish. E, all'inizio e alla fine del film, partono una serie di foto in bianco e nero di varie vittime afroamericane di soprusi. È il modo che sceglie Jenkins di rendere esplicita la denuncia in un film che, anche con qualche tocco di ironia, sceglie di non tirare i mattoni verso le finestre. E di confezionare un film elegante, laccato, patinato, a tratti forse troppo, anche in omaggio all'epoca che racconta.
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Nel cast anche Regina King e Diego Luna
Come in Moonlight, Jenkins è bravo a comporre un ottimo cast, scegliendo attori poco noti per i ruoli dei protagonisti, e mettendo qualche attore più famoso nei ruoli di sostegno. Tish è la bellissima e delicata KiKi Layne e Fonny è Stephan James: se entriamo nella storia è anche molto merito loro. Regina King è Sharon, la coraggiosa madre di Tish - e per la sua interpretazione è candidata agli Oscar 2019, mentre Diego Luna un gentile ristoratore che si prende a cuore la coppia. Barry Jenkins si conferma un nuovo alfiere dell'orgoglio afroamericano, uno Spike Lee che però all'aggressività e alle sferzate dell'hip-hop preferisce i toni di una morbida ballata soul. È su un altro lato dello spettro della black music, un altro modo di esprimere la cultura afroamericana.
Movieplayer.it
3.5/5