Il 17 luglio 2021 Scompartimento n.6 si è portato a casa il Grand Prix al Festival di Cannes, che il regista Juho Kuosmanen ha condiviso con il collega iraniano Asghar Farhadi. Un bel primo trionfo per l'opera seconda di uno dei più apprezzati nuovi autori del cinema finlandese, che ha presenziato in altri festival prestigiosi ed è anche stato scelto per rappresentare il proprio paese agli Oscar nella categoria del miglior film internazionale (la seconda volta per Kuosmanen, dopo l'esordio nel 2016). Tra i vari appuntamenti a cui ha partecipato c'è anche il Festival di Karlovy Vary, in Repubblica Ceca, un mese dopo la prima cannense, ed è in tale occasione, il 24 agosto, che abbiamo intervistato il cineasta, felice di poter presentare la sua opera in una sala piena (con obbligo di mascherina e accesso consentito solo a detentori di Green Pass), soprattutto al confronto con il suo paese d'origine nello stesso periodo: "Non ero presente alla prima finlandese [tenutasi a Espoo la sera prima dell'intervista, n.d.r.], ma mi hanno mandato le foto e la sala era praticamente vuota, perché non potevano esserci più di venti persone in base alle leggi in vigore."
L'importanza del passato
Scompartimento n.6, come il precedente La vera storia di Olli Mäki, si svolge nel passato, più o meno recente. Una preferenza a livello di poetica? "Beh, nel caso di Olli Mäki, trattandosi di una storia vera, non avevo molta scelta, perché non ha senso raccontare vicende simili al giorno d'oggi", dice Juho Kuosmanen. "Qui ho cambiato un po' la cronologia rispetto al romanzo, che è ambientato alla fine degli anni Ottanta mentre il film si svolge una decina d'anni dopo, ma sono rimasto nel passato perché non volevo che ci fossero smartphone, il che costringe i protagonisti ad avere delle vere interazioni mentre sono chiusi in quel treno per ore. Ma volevo anche, a livello di tono, che il film fosse come un ricordo: non sta accadendo adesso, è passato. Trovo che in generale sia difficile capire cosa sta succedendo oggi, ed è più facile raccontare storie quando c'è una certa distanza." Tornando all'esordio, che nel 2016 vinse il premio principale a Cannes nella sezione Un Certain Regard, il cineasta chiarisce la discrepanza tra il titolo internazionale e quello finlandese, Hymyilevä mies (l'uomo che sorride): "Siccome la sceneggiatura è stata sviluppata all'estero, con il supporto di enti come il Torino Film Lab, abbiamo pensato prima al titolo internazionale. Al momento della scelta di quello per il mercato finlandese abbiamo dovuto cambiarlo, perché traducendo letteralmente il titolo inglese, che parla del giorno più felice nella vita di Olli Mäki, veniva fuori una cosa che sembrava un film per bambini."
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Un'altra caratteristica notevole del film è la colonna sonora, con la canzone Voyage, voyage a fungere da tema musicale. Spiega il regista: "Trovo che il testo sia adatto alla storia, perché parla di un viaggio, ed è una canzone con un velo di malinconia, come l'atmosfera del film. Soprattutto adesso, perché vedere questo tipo di racconto in un momento storico dove non si può più dare per scontata la possibilità di viaggiare ti colpisce in modo diverso. C'è una scena in particolare che ha una connotazione molto diversa in tempi di pandemia: quando lei parla della Mosca che si è lasciata dietro, dove incontrava gente e andava a feste varie. Durante il montaggio ci siamo resi conto che quel momento ha una forza diversa adesso. È bello uscire adesso con il film, per ricordare il mondo che era." Da quel punto di vista è anche stato importante andare a Cannes, dove il lungometraggio è stato ammesso in concorso e quindi presentato in anteprima mondiale all'interno del prestigioso Grand Théâtre Lumière: "Quello è il luogo più prezioso per la prima di un film. Quando l'abbiamo completato, a gennaio, avevo perso ogni speranza per i festival, non pensavo che si sarebbero tenuti neanche in estate. E a fine maggio abbiamo ricevuto la conferma della selezione in concorso, ma temevo comunque che non sarebbe accaduto. Durante la proiezione la mia gioia principale era il fatto di essere in un cinema, di ritrovare la gente e un senso di normalità. Lo scorso inverno le sale a Helsinki erano chiuse [a causa del limite di dieci persone a spettacolo, n.d.r], ed è stata un'esperienza terribile. In quel momento mi sono reso conto di quanto il cinema come luogo sia importante per me. Anche perché stavo completando il mio film e il futuro non sembrava roseo. Però all'epoca potevo capirlo, perché non eravamo vaccinati, mentre adesso per me non ha senso imporre il limite di qualche decina di spettatori, perché i contagi non avvengono al cinema."
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La frontiera linguistica
Anche se la protagonista è finlandese, i dialoghi sono quasi interamente in russo, per via dell'ambientazione, e Kuosmanen non conosce quella lingua. Com'è stato dirigere i due attori principali in quel contesto? "La risposta da cineasta sarebbe che in fin dei conti la vera lingua è il cinema, e durante il casting sono giunto alla conclusione che non avrei avuto problemi sul set, pur dovendo dirigere gli attori in inglese, perché avendo scritto la sceneggiatura sapevo dove vanno a parare i dialoghi anche quando non capisco al 100% cosa stiano dicendo i personaggi. L'unico problema, in tal senso, è stato quando abbiamo girato la scena con la signora anziana. Lei non è un'attrice, e le sue battute sono completamente improvvisate. Quando ho ricevuto la traduzione di quello che aveva detto, ho scoperto che a un certo punto, che non c'è nel montaggio finale, dice, riferito a me, 'Lo ammazzerei, ma credo che sia il regista e quindi non posso ucciderlo'. Era la sua reazione ironica ai miei tentativi di dirigerla." E a proposito di lingue, una scena in particolare, dove la protagonista manda a quel paese l'altro passeggero senza che lui lo capisca, sta trasformando l'espressione finlandese haista vittu ("vaffanculo") in tormentone internazionale: "A Cannes alcuni amici e colleghi mi hanno fatto i complimenti per il film scrivendomi 'Grazie e haista vittu!'."