Una camicia bianca, semplice, casta addosso a qualsiasi altra donna che non sia lei. Un tavolo da ping pong, una sigaretta accesa, uno sguardo che divampa. Bastano pochi elementi per costruire una delle sequenze più sensuali del cinema recente, ovvero quella che precede l'esplosione passionale dei protagonisti di Match Point. Quando si parla di Woody Allen va a sempre a finire così: si scomoda il termine musa, ma come non cadere in tentazione davanti agli occhi invadenti, le labbra carnose e le forme morbide di Scarlett Johansson? Lei che seduce e raggela, conquista e abbandona, sfugge al desiderio che la attanaglia con un carisma fuori dal comune. Bellezza cinematograficamente peccaminosa, tanto da conquistare spesso uomini molto più maturi di lei, Johansson ha attraversato i generi e le epoche storiche, ha mosso i primi passi nel dramma, attraversato la commedia e sfociata laddove i suoi fianchi larghi e le sue curve abbondanti non avrebbero mai fatto credere. Scarlett Johansson è un'opera d'arte che prende vita (La ragazza con l'orecchino di perla), un ultimo abbraccio dentro il caso (Lost in Translation), una femme fatale d'altri tempi (Black Dahlia) e poi un bambolona capricciosa (Don Jon). Le sfumature scarlatte raccontano di un'attrice capace di giocare con la sua percezione, con quel corpo che è difficile nascondere agli occhi del pubblico. Un corpo capace persino di riscrivere le regole di un genere spesso rigido e severo come l'action movie.
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Sì, perché se le eroine chiamate all'azione hanno spesso e volentieri corpi longilinei e slanciati, la nostra Scarlett rappresenta una decisa eccezione alla regola. In netto contrasto con le corporature sottili di Milla Jovovich (nella saga di Resident Evil), Kate Beckinsale (la saga di Underworld) e Charlize Theron (Aeon Flux, Mad Max: Fury Road e gli imminenti Fast & Furious 8 e Atomica bionda), Johansonn presta le sue rotondità burrose a calci e scazzottate, a sparatorie e prese plastiche quanto letali. Ecco la supereroina che non ti aspetti, ecco una donna splendida trasformarsi in attrice coraggiosa nel beffare gli stereotipi. Oggi, mentre il suo Maggiore si aggira sui tetti di una pseudo-Tokyo cyberpunk in Ghost in the Shell ci soffermeremo proprio sui suoi ruoli da inarrestabile eroina. Tra capelli rossi, biondi e nerissimi, ad ammirare tutta la sua morbidezza sensuale che si raggruma, si addensa e si trasforma in una durissima arma letale.
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La Vedova che sussurrava agli Avengers
Siamo nel bel mezzo di un enorme cantiere, precisamente nel terzo atto del Marvel Cinematic Universe. La nostra Scarlett ha appena tenuto uno stage in un cinecomic (The Spirit) ed è pronta a fare sul serio. Così piomba in Iron Man 2 con una forza prorompente maggiore delle fruste elettriche del Whiplash di Mickey Rourke. Fino ad allora le donne del MCU erano state Pepper Potts e la Betty Ross vista ne L'incredibile Hulk, due donne legate alla dimensione sentimentale dell'eroe. Invece Natalia Rushman, entrata in scena come assistente di Tony Stark, fa subito capire di essere una mina vagante, persona votata all'indipendenza e alquanto indigesta agli ordini altrui. La vera svolta del personaggio arriva con The Avengers, dove Joss Whedon affida a Johansson un ruolo centrale nell'accorpamento dei Vendicatori, arricchito soprattutto da una scrittura brillante. Vedova Nera ferisce con i calci ma anche con la lingua, dimostrando un'abilità dialettica pari soltanto alla sua fredda efficacia sul campo di battaglia. Il volto austero e l'atteggiamento distaccato di Natasha Romanoff, in grado di affascinare prima Steve Rogers in Captain America: The Winter Soldier e poi di domare persino Hulk, evaporano solo per un attimo proprio in Avengers: Age of Ultron, quando Scarlett Johansson abbassa le difese e ci permette di entrare nel vissuto traumatico di una donna depredata.
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Under her Skin: l'alieno e il software
Perdonateci questa piccola digressione che con l'action movie non c'entra affatto. Lo facciamo perché Scarlett Johansson non ha solo prestato il suo corpo ad un genere inaspettato, ma si è cimentata in un vero e proprio esperimento cinematografico sulla percezione della suo aspetto. È successo in due film diversissimi eppure complementari: Under the Skin e Lei. Nell'inquietante e oscura caccia all'uomo diretta da Jonathan Glazer, la nostra diventa una predatrice famelica che si aggira per la Scozia per punire il desiderio altrui; una divoratrice di uomini accecati da una bellezza irresistibile quanto spietata. Il corpo di Scarlett è l'involucro di un alieno muto, guscio ante litteram (prima di futuri shell) in cui si cela un essere che fagocita le debolezze maschili dentro un buco nero. Però, prima di mostrarsi come puro aspetto, come corpo e basta, Scarlett rinuncia quasi per contrappasso alla sua avvenente esteriorità nel poetico e malinconico Lei di Spike Jonze. Qui il corpo si dissolve in un software, unica compagna di vita di un protagonista malato di ricordi e solitudine. La sensualità passa solo attraverso la sua voce soffiata, calda e leggermente roca è persino capace di "installare" sentimenti e piaceri struggenti.
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L'eletta di nome Lucy
La vendetta torna a bussare alle porte di Scarlett senza chiedere permesso. Questa volta a dirigerne le gesta c'è Luc Besson, grande appassionato di eroine, intenzionato a raccontare l'ascesa di una donna prima usata come oggetto e poi sempre più consapevole dei suoi poteri. Lucy è un effetto domino, un upgrade continuo dove il tempo si consuma e le abilità della protagonista crescono a dismisura. Il risultato, però, è inversamente proporzionale: al crescere del potere di Lucy, diminuisce l'efficacia di un film confusionario che sfocia in un'accozzaglia di effetti speciali e ossa rotte. E se Morgan Freeman resta impigliato nel suo ennesimo cameo senza peso specifico, Johansson non si accontenta di essere vittima sacrificale dell'operazione e si dimena pur di tenere a galla un'opera schiacciata dalle sue stesse, enormi, intenzioni. Il film, affidato a questa donna vitruviana, conferma la glaciale naturalezza con cui Johansson fa spesso cadere il mondo intero ai suoi piedi.
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Involucro meccanico
Il termometro recitativo di Scarlett Johansson conosce temperature di ogni tipo. Si passa dai picchi focosi di Match Point e Don Jon a ruoli gelidi, a personaggi immersi in lastre di ghiaccio. È il caso del tanto discusso maggiore del tanto discusso Ghost in the Shell, adattamento dell'omonimo anime cyberpunk che a metà degli anni novanta aggiornò la filosofia di un genere perennemente sulla soglia tra l'umano e il meccanico. Nelle vene di Johansson scorrono sangue danese e globuli rossi polacchi, e forse è per questo che il ruolo di una macchina bellica fredda e imperturbabile le calza a pennello. Come la protagonista apprezzata nel film di Mamoru Oshii, anche lei porta in volto l'apatia di un corpo cibernetico, che pian piano lascia spazio ad un'empatia crescente. Però il merito di Ghost in the Shell è proprio quello di mettere in scena un corpo neutro, mai sessualizzato, mero mezzo di una missione poco sincera, riuscendo nell'impresa di togliere ogni forma di eros dal corpo di un'attrice che si fa beffe dei canoni.