Dopo aver vinto il Pardo d'Oro al 57° Festival di Locarno, Saverio Costanzo presenta alla stampa romana il suo Private, opera prima di notevole spessore che, nel ritrarre il conflitto israeliano-palestinese in una dimensione estremamente privata, si pone a metà strada tra fiction e verità. Ad accompagnarlo Mohammad Bakri, vincitore a Locarno come miglior attore protagonista, e Tomer Russo che nel film interpreta il ruolo di un soldato israeliano.
L'uscita del suo film coincide con la nomina di Abu Mazen a capo della nazione palestinese. Qual è il suo stato d'animo nei confronti di questa coincidenza che in qualche modo schiude la strada a qualcosa che il film lascia intravedere pur presentando una situazione drammatica? Saverio Costanzo: In realtà non ho delle opinioni politiche così precise verso il Medio Oriente. Mi sono fatto guidare, anche nel film e nella sua ricerca di oggettività, dal parere degli attori che poi sono quelli che vivono quotidianamente la politica di Israele e della Palestina. Mohammad Bakri mi diceva che era molto contento dell'elezione di Abu Mazen perché in qualche modo Abu Mazen tenta di ricreare una intifada pacifica, una intifada senza armi, come lo era stata la prima, quella dei sassi, e trovava delle analogie nel personaggio del film rispetto a questo nuovo modo di reagire all'occupazione dei Territori. Io mi faccio guidare da chi, a prescindere dalle analisi politiche, vive le cose in maniera più diretta e per questo ritengo che Abu Mazen sia la scelta migliore in questo momento storico per Israele e per la Palestina.
Mohammad Bakri: Come padre palestinese sono felice dell'elezione di Abu Mazen perché credo che siamo esausti della morte e del sangue ed è proprio questo sfinimento ciò che mi ha portato a fare il film, perché credo che il tempo delle guerre sia ormai passato. Ho la speranza che Abu Mazen e il governo israeliano possano arrivare ad una soluzione finale. Tutti noi vogliamo la pace perché siamo disperati per tutto questo sangue che viene versato ogni giorno. Troppe persone sono morte o hanno perso la casa in questi quattro anni. Questa mattina ho visto un'immagine alla CNN di un padre palestinese che chiedeva ai medici di uccidere il figlio perché gravemente ferito, per far cessare in questo modo le sue sofferenze, e a questo punto mi sono ricordato Private, che per me è un grido che chiede che si fermino queste scene orribili, questa umiliazione e queste uccisioni. Bisogna fermare l'occupazione.
Qual è il senso di responsabilità che avete avuto nel raccontare questa storia e questi personaggi in un momento in cui, al di là della tensione che esiste nei confronti del problema mediorientale, c'è un ritorno dell'antisemitismo in Europa? Qual era la vostra preoccupazione rispetto alla possibilità di prendere una posizione? Tomer Russo: Come attore credo la responsabilità nella mia professione sia nel fare qualcosa. Il mio paese sta vivendo una situazione difficile da moltissimi anni. Quando ho letto il copione la prima cosa che mi ha colpito è stato il fatto che ci fosse un forte equilibrio, che ci fosse il modo di far vedere che si parlava di esseri umani da entrambe le parti e questa era la nostra prima responsabilità: far vedere che ci sono delle difficoltà fra le nazioni, ma come esseri umani si può continuare a cercare una soluzione. Oggi quando ho rivisto la scena della bambina chiusa fuori la porta e il padre dall'altra parte che grida e chiede aiuto ho pensato al mio bambino di due anni e mezzo. Come israeliano non voglio che questo possa capitare e quindi mi chiedo perché capiti a qualcun altro. Come attore voglio far vedere che tutte le persone soffrono e che c'è un contatto tra esseri umani a livello più elementare, più semplice, che ci sono delle complicazioni che possiamo riuscire a risolvere in modo pacifico, noi come israeliani, loro come palestinesi. E' dal 48 che si cerca una via d'uscita e una soluzione che ancora non è stata trovata.
Mohammad Bakri: Io credo che esista l'umanità e l'amore che proteggono questa nostra responsabilità. Bisogna smettere di aver paura di sembrare antisemiti semplicemente criticando o mostrando le cose che non vanno nella società e nel governo israeliano. Noi non vogliamo giudicare né la società israeliana né i soldati. In tutto c'è il bene e il male, il bello e il brutto e questo vale anche per i palestinesi. Credo che gli europei non debbano aver paura di sembrare antisemiti quando sono obiettivi.
Saverio Costanzo: In fase di scrittura avevamo l'ossessione dell'oggettività. Credo che comunque l'oggettività del film sia nel prendere una soggettiva, è proprio nello scegliere il punto di vista di una famiglia che tenta di vedere nell'altro non un nemico, ma un essere umano, che va ritrovata. Allora prendendo il punto di vista loro, noi che siamo osservatori facciamo un passo indietro rispetto alla realtà e questa viene fuori con più oggettività. La trovata dell'armadio, che è un'esasperazione della soggettiva, era l'unico modo che avevamo per raccontare l'oggettività dei soldati nel senso che poi noi non sappiamo ciò che avviene a destra e a sinistra, ma solo quello che la ragazza, nascosta lì dentro per spiare i soldati, si convince di guardare.
Come gli attori hanno contribuito alla sceneggiatura e com'è andata la convivenza?
Saverio Costanzo: Gli attori sono lo spirito del film. Ho sempre detto che questo è un film dove il mio ruolo era quello di osservatore. Non è un film registico, ma più attoriale. Loro hanno collaborato nella creazione dei personaggi, hanno messo molto del loro vissuto, magari non nelle parole, ma nella forma, nei gesti, in quello che dicevano, nel come recitavano.
Sul set ci sono stati diversi momenti di tensione soprattutto quando arrivavano le scene notturne che erano un po' quelle a cui tenevamo di più come intensità perché erano le scene in cui queste due entità finalmente si univano, si scontravano, si toccavano. Proprio nei momenti in cui si dovevano scontrare venivano fuori le tensioni che ci sono nell'essere palestinesi e nell'essere israeliani. E anche qui ho adottato questi lunghissimi piani sequenza in cui non c'è un intervento reale della regia, ma un costringere gli attori a un'auto-direzione. In questo incontro/scontro trovavano così il loro equilibrio, nella libertà di essere sciolti da una regia molto cinematografica, nel non dover mai interrompere il flusso emotivo.
Tomer Russo: Ho passato tre anni della mia vita nell'esercito, nei Territori occupati, facendo esattamente le stesse cose che si vedono in questo film. Ho cercato di portare la realtà della mia esperienza e Saverio è stato molto aperto per quanto riguarda la sceneggiatura. Voleva sapere da me come stavano le cose anche se ha passato un po' di tempo nei Territori e quindi ha una sua esperienza e un suo bagaglio. Ci sono state in effetti delle discussioni per le riprese perché tutti i giorni ci sono delle situazioni che si riproducono e ogni giorno ci sono delle reazioni diverse: ci sono dei soldati molto violenti, altri molto pacifici, ci sono soldati che non danno molta importanza a quello che fanno e altri che sono carichi di odio. Io ho cercato di essere sempre me stesso come soldato e quindi di portare la mia verità senza cercare esageratamente un equilibrio, semplicemente facendo vedere cose che sono realmente accadute.
Mohammad Bakri: Credevo molto nella sceneggiatura quando l'ho letta, ma poi quando abbiamo cominciato a lavorare ho avuto paura come palestinese che ne venisse fuori un film troppo dolce, troppo zuccheroso, perché gli israeliani cercavano di apparire più buoni possibili e noi palestinesi cercavamo di apparire più vittime possibili. Ognuno di noi cercava di raggiungere questo obiettivo e la vera vittima in tutto questo era proprio Saverio che cercava di trovare un equilibrio per non fare apparire noi troppo vittime e loro troppo buoni. Tutti noi mettevamo nella nostra recitazione qualcosa per cercare di conquistare l'empatia del pubblico che poi avrebbe visto il film. Comunque tutti noi attori, israeliani e palestinesi, abbiamo cercato di mettere le nostre anime nel film per poi dare un'immagine migliore di entrambe le parti. Però questo film non è un documentario. Bisogna ricordare che questo film è fiction, una storia inventata anche se basata su una storia vera e quindi non pretende di descrivere una verità assoluta in Palestina perché tutti i giorni ci sono continuamente degli episodi tra i soldati e i palestinesi. Certe volte i soldati sono buoni, certe volte invece sono dei diavoli. Quello che posso dire è che Saverio come regista e noi come attori abbiamo cercato di dire in questo film che siamo contrari all'occupazione.