Più che assomigliare a una classica conferenza stampa, la presentazione ufficiale de I demoni di San Pietroburgo si è trasformata sin dall'inizio in un vero e proprio one man show. Non c'è da stupirsene, considerato il carisma di un personaggio come Giuliano Montaldo. Il grande regista italiano, lucido e pungente più di quanto l'età farebbe supporre, si è infatti lanciato in una enfatica serie di ringraziamenti ai vari membri del cast presenti in sala, trovando poi nelle domande rivoltegli lo spunto per esporre dettagliatamente la genesi del suo film, ispirato alle opere e alla biografia di Fjodor Mikhajlovic Dostojevskij.
Grande stima ed affetto sono emersi, da parte del cineasta ligure, nei confronti dei numerosi collaboratori che hanno reso possibile un progetto cinematografico così ambizioso, dagli interpreti fino a quei componenti del cast tecnico che hanno dato un apporto fondamentale, esemplare il caso di Morricone per le musiche come anche quello di Arnaldo Catinari (accostato da Montaldo a colleghi di grande levatura come Storaro e De Santis) per la fotografia.
Passiamo pure ad alcune delle domande che i giornalisti hanno posto al maestro e agli attori presenti in sala.
Il film si propone come riflessione, mediata da Dostojevskij, sul ruolo dei cattivi maestri?
Giuliano Montaldo: Oltre a ricordare che in sala, qualora vogliano intervenire, sono presenti i due sceneggiatori, posso dire che la nostra è stata un'avventura lunga, su cui abbiamo cominciato a riflettere parecchi anni fa; anche se all'epoca avevo la sensazione, non del tutto condivisa dal co-autore Paolo Serbandini, che i sovietici non amassero particolarmente Dostojevskij ed il film che volevamo dedicargli.
Quanto a me, racconto qui la mia insofferenza per le bombe, per qualsiasi forma di intolleranza, per chi crede di poter cambiare il mondo facendo vittime innocenti, come la bambina che si vede all'inizio del film.
Come si pone rispetto alla famosa frase "la Rivoluzione non è un pranzo di gala"?
Giuliano Montaldo: Ovviamente non ero presente nel 1905 o nel 1917. Però posso dire di esserci stato, ancora giovanissimo, quando nel 1945 si sognava un mondo migliore. Ecco, penso sia stato allora che sono stato privato dell'ottimismo, e non ho mai smesso di cercare i colpevoli per dirgliene quattro.
Lei ha detto che i Russi non sembravano amare così tanto Dostojevskij, come mai?
Giuliano Montaldo: Ripeto, si tratta solo di una sensazione, ma ricordo bene che quando ci siamo presentati lì la prima volta si finiva per essere ubriacati di vodka, mentre le discussioni intorno al film venivano sempre rimandate, finchè non ci siamo stufati.
A distanza di anni, dopo essermi dedicato ad altre cose, ho incontrato nuovamente Serbandini chiedendomi se ci tenesse ancora a quella idea.
Si è aggiunta a noi Monica Zapelli, reduce dal grande successo de I cento passi, ed insieme abbiamo cominciato a riconsiderare la cosa seriamente.
Per il resto, credo che l'opera di Dostojevskij sia ormai da considerare un patrimonio universale e non qualcosa che solo un regista russo possa comprendere e riproporre. Quello che ci ha emozionato di più, nella realizzazione del film, è stato il percorso umano dello scrittore, lui che già famoso si ritrova nella Russia zarista di fronte a un plotone di esecuzione.
Il film, perciò, non affronta soltanto la questione dei "cattivi maestri", di cui si diceva prima, ma anche la sofferenza dello scrittore, ed anche il coraggio di un personaggio pieno di entusiasmo e di contraddizioni come Alexandra, ed anche una storia d'amore fondata sulla dedizione dell'altra ragazza, insieme a tante altre cose.
Come è stato tornare a lavorare su un progetto di fiction cinematografica dopo tutto questo tempo?
Giuliano Montaldo: La lavorazione del film precedente, Tempo di uccidere, era stato un piccolo shock per le tante traversie alle quali la pellicola, ambientata in Africa, era andata incontro. Alla fine mi ero sentito svuotato, deluso per non aver potuto dare a un'ottima sceneggiatura lo smalto di cui necessitava.
Anche per questo mi sono voluto mettere da parte, dedicandomi ad altre cose che mi hanno dato comunque grande soddisfazione, per esempio la regia di alcuni spettacoli lirici. Poi però ho rischiato di farmi venire gli incubi, al pensiero che non lavoravo più su un set.
A due grandi attori come Miki Manojloic e Roberto Herlitzka vorremmo chiedere invece un commento, su quel dialogo molto ironico in cui il capo della gendarmeria zarista afferma che "lo stato deve preoccuparsi dell'arte". Vista la situazione che abbiamo oggi in Italia il sarcasmo aumenta?
Roberto Herlitzka: La battuta si commenta da sola. Sì, lo stato dovrebbe servire la cultura, ma tanto qui la cultura sta sparendo, per cui lo stato non serve più a nessuno e da parte nostra potremmo anche andarcene tutti a casa.
Miki Manojlovic: Io non credo che la Rivoluzione possa esistere veramente, almeno per quello che ho visto accadere in Serbia, a Belgrado, come anche per l'idea che mi sono fatto dell'esperienza russa. Invece mi piace molto quel dialogo, che esce dalle pagine de Il Grande Inquisitore.
Cosa pensa Andrei Konchalovsky di come è stato realizzato quello che era, almeno in partenza, un suo soggetto.
Giuliano Montaldo: A dirla tutta, in tutti questi anni la mia strada si è incrociata con quella del regista russo non più di due o tre volte, durante le quali non ci siamo mai messi veramente a parlare. Semmai è Serbandini che ha avuto occasione di discutere con lui alcuni aspetti del soggetto iniziale, quando all'epoca ebbe serie di incontri, dove si è parlato soprattutto del personaggio di Gusiev.
Ho poi saputo, sempre da Serbandini che Konchalovsky in tempi più recenti ha potuto leggere la nuova sceneggiatura, e pare che gli sia piaciuta molto. A questo punto speriamo che anche la pellicola sia di suo gradimento, altrimenti posso sempre dire che i suoi film non mi piacciono, così saremmo di nuovo pari. Scherzo, ovviamente!
Da attrici sempre più lanciate come Anita Caprioli e Carolina Crescentini vorremmo invece sapere come ci si trova a rappresentare una generazione, che sta finalmente tirando fuori interpreti brave e preparate.
Carolina Crescentini: A parte certe figure già affermate fino a un po' di tempo fa i nuovi non erano neanche attori, venivano da altri ambiti. Ora sono contenta di far parte di un'ondata, che raccoglie tanti volti nuovi provenienti dalle scuole di recitazione, io ad esempio mi sono formata al Centro Sperimentale.
Anita Caprioli: Sono pienamente d'accordo con Carolina, aggiungo soltanto che l'ultima generazione di attori italiani sta proponendo un'attenzione maggiore verso il teatro, dove interpreti preparati possono portare la loro esperienza al cinema, dando luogo a uno scambio assai stimolante.