Dopo il fortunato Io non ho paura di sei anni fa, si rinnova la collaborazione tra Gabriele Salvatores e lo scrittore Niccolò Ammaniti. Stavolta a prendere vita sullo schermo sono le pagine di Come Dio comanda, un'opera potente che traccia con grande intensità il rapporto tra un padre dagli ideali nazisti e un figlio che è costretto ad imparare l'odio. Accanto a loro lo 'scemo del villaggio', destinato a mettere alla prova il loro rapporto nel fango della tragedia, nel quale si vanno a impantanare improvvisamente questi personaggi 'diversi' dimenticati dal mondo. Sceneggiato dallo stesso Ammaniti insieme ad Antonio Manzini e a Salvatores, il film è girato in Friuli Venezia Giulia, tra fabbriche e boschi che fagocitano i protagonisti. Per presentare il film, in uscita il prossimo 12 dicembre distribuito da 01, sono giunti a Roma il regista Gabriele Salvatores, lo scrittore Niccolò Ammaniti e l'eccellente cast formato da Filippo Timi, Elio Germano e dagli giovani Alvaro Caleca e Angelica Leo.
Come nasce questa nuova collaborazione tra Salvatores e Ammaniti?
Gabriele Salvatores: Negli anni io e Niccolò siamo diventati molto amici. Quando lui ha cominciato a pensare al romanzo di Come Dio comanda mi ha raccontato subito quest'idea di un padre cattivo che insegna al figlio a difendersi, che gli insegna "l'odio con tanto amore". Ho letto poi il libro alla sua pubblicazione, mentre ero in viaggio per l'Australia dove stavo andando a presentare Quo Vadis, Baby? e mi sono reso conto che si potevano fare diversi film da questo romanzo, per la ricchezza di personaggi e contenuti. Alla fine abbiamo deciso di concentrarci sulla storia che riguarda il rapporto tra padre e figlio.
Niccolò Ammaniti: La storia si prestava ad essere raccontata in due diversi modi, dal punto di vista del ragazzo o seguendo molteplici personaggi. Dal punto di vista della scrittura sicuramente quest'ultimo è più stimolante, ma ripetere la stessa formula per il film rischiava di trasformarlo in qualcosa di grottesco. Giocare con la commedia e la tragedia è sempre complicato e per questo ho scelto di tagliare tanti personaggi. Volevo che il film fosse una sorta di documentario, una specie di osservazione di questo rapporto che lega padre e figlio.Salvatores, cosa l'ha attratta di più del romanzo?
Gabriele Salvatores: I romanzi di Ammaniti vengono spesso visti come un racconto dell'Italia contemporanea attraverso le tinte del noir, ma delle sue storie mi piace la dimensione archetipica, ancestrale, che supera il momento contingente della contemporaneità. E in questo senso assomigliano un po' alle commedie di Shakespeare che hanno sempre tre personaggi, un re, padre-padrone, un figlio-principe adolescente e un fool, un matto, un buffone, che si ritrovano in una tempesta, magari di notte in un bosco, per confrontarsi con quello che il destino ha in serbo per loro. Quelle di Niccolò sono storie dal sapore antico che toccano problemi delicati. Negli anni '60 la messa in discussione dei ruoli è stata fondamentale, ma bisognava sostituire questi ruoli o tenere ciò che di buono contenevano, come gli insegnamenti dei padri su cosa è buono e cosa è sbagliato e la possibilità dei figli di capire poi da sé come stavano davvero le cose. Oggi l'80% dei crimini in Italia si consuma all'interno della famiglia. Bisognerebbe chiedersi perché l'amore diventa pericoloso. Di questa storia volevo indagare anche il concetto di pietas latina. Ci sono tre personaggi che hanno preso una cattiva strada, ma non potevo lasciarli invisibili, volevo guardarli negli occhi.
La colpa è quindi tutta dei padri che non sanno educare i figli, lasciando questo compito alle madri?
Gabriele Salvatores: Oggi vedo tante donne che crescono i figli da sole. Una volta si diceva che la donna è l'angelo del focolare e il padre è il cacciatore. Io invece la penso diversamente. Per me la donna deve essere libera, non va compressa, chiusa e inscatolata dall'uomo, altrimenti si perde il suo apporto in termini di creatività. L'uomo d'altra parte dovrebbe usare i muscoli per difendere il nido. Le femmine dei canarini, per esempio, vanno via quando arriva l'inverno e il maschio difende il nido. Quando tornano, ubriache di sole e d'amore, il maschio scopre cos'è la riconoscenza. Lo stesso dovrebbe valere con i figli. Per i piccoli un riferimento maschile dall'approccio violento diventa pericoloso.La storia di Come Dio comanda è molto maschile, con tre uomini protagonisti. Perché non inserire un personaggio forte di donna?
Niccolò Ammaniti: Il rapporto che lega il padre al figlio è caratterizzato dalla paura della separazione, è quello degli ultimi che si difendono gli uni con gli altri. Sentivo che questo tipo d'amore doveva essere esclusivo e perciò ho preferito non far entrare nessuna donna in questo rapporto.
Come avete superato le trappole insite in ogni racconto che sconfina nella cronaca nera?
Gabriele Salvatores: Ho cercato di non guardare a questi eventi come a eventi di cronaca, il cui uso sta invadendo troppo le nostre vite. Volevo mettere i personaggi in una dimensione più ampia e antica, da favola nera, una sorta di cappuccetto rosso che incontra in un bosco un lupo cattivo, che in questo caso è un ragazzo pieno di problemi che viene presentato allo spettatore nella prima parte del film e può suscitare anche tenerezza.
Niccolò Ammaniti: Mi fa sempre una certa impressione il fatto che normalmente tv e giornali chiamino una serie di esperti, quali sociologi, psicologi e criminologi, ad esaminare i più terribili fatti di cronaca. Secondo me la letteratura può invece raccontare tutto ciò che c'è prima, può mettersi nei panni di chi agisce in un certo modo e quindi provare a comprenderlo. Col mio libro volevo scoprire le origini di uno stupro, il malessere dei personaggi.Nel film il figlio dubita del padre come l'uomo dubita di Dio. Ci racconta di più sulla lettura religiosa che può essere fatta del film?
Gabriele Salvatores: Nel film è certamente presente questo tema, così come appare evidente l'assenza di Dio. Le invocazioni a Dio sono diffuse da altoparlanti in un paese completamente deserto e non succede niente. Non so se Dio esista, forse siamo tutti noi, certo non si vede mai con quello che succede nel mondo. Nel film le ragazze hanno scritto su un muro una frase di Prevert, 'Padre nostro che sei nei cieli, restaci'. Di segni di Dio nella realtà non ne vedo, mi sembra ci siano però molti segni dell'uomo, nel bene e nel male, e questo mi porta a pensare che forse Dio siamo noi.
All'inizio del film c'è anche un accenno di polemica razzista: il padre odia e insegna al figlio l'odio verso gli immigrati che vengono in Italia a rubare loro il lavoro.
Niccolò Ammaniti: Nel libro questa polemica è molto più forte rispetto al film. Uno degli aspetti che mi interessava affrontare era questa forma di razzismo che si è sviluppata negli ultimi dieci anni e che ritroviamo spesso la domenica sugli striscioni dei tifosi. Il razzismo nasce fondamentalmente dalla paura di perdere qualcosa con l'arrivo di qualcun'altro. Il padre si sente dimenticato dallo Stato e vede arrivare lo straniero che si prende quello che dovrebbe essere suo. Insegna perciò cose sbagliate al figlio che poi scrive temi senza senso. Il razzismo nasce dall'insicurezza e dalle paure, piuttosto che dalla voglia di attaccare il diverso.
Gabriele Salvatores: Questi personaggi si difendono da un mondo che gli fa paura e che sentono estraneo, ma noi che siamo il mondo abbiamo paura di loro. C'è qualcosa che non va quindi, e forse bisognerebbe tornare a guardarci negli occhi per capire.
Il film è ambientato nel Nord-Est, un territorio che sembra estremamente faticoso da percorrere per i personaggi.
Gabriele Salvatores: Durante la lavorazione mi sono accorto che l'ambientazione del film era speculare rispetto a quella di Io non ho paura che si svolge in un ambiente caldo dove però il rapporto tra i personaggi è di non sincerità, di freddezza. Qui invece abbiamo colori e posti freddi, ma i rapporti sono caldissimi. Amo molto il Friuli, volevo una natura forte, che si sentisse. E' un posto molto affascinante, in cui le montagne si alzano subito dalla pianura. E' una zona strappata dall'uomo alla natura, la quale però è pronta a riprendersi questo spazio irrazionalizato con la sua forte razionalità. Scegliere questi luoghi è stata una necessità, perché volevo rendere le difficoltà del vivere deli personaggi. Da parte mia, adoro la natura e mi rifugio spesso in essa, però come l'amore ha il suo lato oscuro, nero, che mi interessa affrontare.Lei va affinando sempre di più l'aspetto tecnico dei suoi film. Si sta modificando anche la sua idea di cinema?
Gabriele Salvatores: Penso che il cinema sia un lavoro fisico, fatto di cose concrete. La macchina a mano nel caso di Come Dio comanda dà un senso di realtà, ma non è solo uno stare all'altezza dell'uomo. Ho provato a girare tutto il film con lunghi piani sequenza, girando le scene dall'inizio alla fine, senza campo e controcampo, non dando punti di riferimento certi agli attori, per poi interrompere e incrociare questi piani sequenza al montaggio. Per girare in questo modo c'era bisogno però di studiare un'illuminazione particolare, stare attenti alla pioggia, al suono, alla scenografia. Insomma, sto imparando film dopo film cose nuove, e mi sto accorgendo che fare il cinema è un po' fare la guerra.
Quanto è stato difficile per gli attori calarsi in questi personaggi così complessi e cupi?
Filippo Timi: Per un attore è sempre interessante interpretare un personaggio borderline, qualcuno che quando vive un'emozione la estremizza, la porta al limite. Sono convinto che nessun essere vivente sia innocente. Per prepararmi al ruolo sono partito dall'immagine di mio nonno, che per me è sinonimo di purezza, ma ho un ricordo di lui in cui prendeva a calci mia nonna e partendo da questa visione ho estremizzato sentimenti che anch'io provo. Io ho ancora speranza di poter vivere e sorridere, ma Rino, il personaggio che interpreto, è un animale ferito che sanguina. Siamo tutti animali feriti, a volte a morte a volte no, ma se la ferita continua a perdere sangue alla fine muori. Nella vita di tutti i giorni non mi riesce di provare sentimenti così forti, e sul set è catartico amare per una volta fino in fondo. Dopo un'esperienza del genere tornare alla vita reale è un casino. Io avevo voglia di andare da mia madre e dirle 'Stronza, hai sbagliato tutto!', ma non è una cosa che si può fare.
Elio Germano: I personaggi di questa storia sono di una bellezza incredibile, e quello che interpreto è il ruolo più entusiasmante col quale mi sia mai capitato di confrontarmi. Sono personaggi totali, come quelli shakespeariani, che amano e odiano in maniera assoluta. A teatro si interpretano personaggi che raccontano l'uomo nella sua essenza, mentre nel cinema si tende a levare, per poter portare sullo schermo storie di tutti i giorni. Per una volta, l'esperienza sul set è stata simile a quella teatrale, con tutta la gioia, la passione e il sacrificio che richiede la preparazione di simili personaggi.
Alvaro Caleca: Mi sento molto distante e diverso da Cristiano, il personaggio che interpreto nel film, però questa nostra distanza ha anche aiutato, perché in noi abbiamo molti personaggi e l'importante è farli uscire fuori. Cristiano rappresenta quella parte di me che ho sempre represso e durante le riprese ho dato libero sfogo a quello che non sono nella realtà. Ho cercato di capirlo, l'ho interiorizzato e poi mi sono semplicemente lasciato andare.Angelica Leo: A differenza degli altri, il mio personaggio non è cupo, si trova in un'orribile situazione per equivoco. Fabiana rappresenta la normalità della scuola, i ragazzi che vivono le cose in maniera più tranquilla. E' stato difficile e strano trovarsi nel bosco con il fango e la pioggia, e la scena ha richiesto un grande sforzo anche a livello fisico, ma per me è stata un'esperienza straordinaria.