Se la gloriosa carriera di Steven Spielberg fosse una divisa militare, sarebbe tempestata di medaglie, croci, simboli dei più alti riconoscimenti per l'impegno civile e lo spessore umano. Per nostra grande fortuna, quel bambino di 7 anni che girava film amatoriali in 8 millimetri, da grande, ha preferito maneggiare una cinepresa al posto del fucile; ha scelto la potenza delle immagini al potere delle armi. Però, volendo fantasticare come piacerebbe a lui, se Steven Spielberg avesse fatto altro nella vita, sarebbe stato senza dubbio un eccellente funambolo. Perché il suo cinema si è sempre mosso con estrema disinvoltura tra la verità e la fantasia, il bisogno di reale e il desiderio di immaginario. Eternamente sospeso tra meraviglia e concretezza, il cinema spielberghiano ha sempre ondeggiato con maestria tra questi due estremi, a conferma di uno sguardo d'autore innamorato di due aspetti mai in opposizione ma complementari, come se il fantastico desse ancora più valore al reale, come se fuggire nella finzione sia il modo migliore per definire il nostro mondo.
Basta guardare il 2018 di Steven Spielberg per avere conferma di questo ricorrente ossimoro: The Post e Ready Player One. Un'edificante storia vera sul valore della responsabilità e un caotico viaggio nell'immaginario nerd e cinefilo in cui siamo immersi. Ancora una volta due antipodi nell'altalenante filmografia del regista delle meraviglie. Oggi, però, non è del 2018 che vogliamo parlarvi. Oggi il cinema di Spielberg ci permette un balzo indietro di 20 anni e ci tuffa dentro un 1998 prodigo di guerra, morte e riflessioni esistenziali. Nello stesso anno in cui Terrence Malick racconta la Seconda Guerra Mondiale con il suo stile evocativo e filosofico, senza sparare un solo colpo nei primi 40 minuti del suo La sottile linea rossa, il buon Steven sporca il grande schermo di fango, sangue e budella. Il 24 luglio 1998, infatti, l'indimenticabile e cruento Salvate il soldato Ryan arrivava nei cinema americani (in Italia sarebbe uscito il 23 ottobre) assieme a una storia emozionante eppure capace di prenderti a pugni nello stomaco con il suo carico di immagini spietate. Vincitore di cinque Premi Oscar (Miglior Regia, Fotografia, Montaggio, Sonoro e Sonoro), ispirato a una storia vera ambientata durante la guerra civile americana e inserito in centinaia di classifiche dedicate ai film più belli della storia del cinema, Salvate il Soldato Ryan racconta di una folle missione mossa da un profondo senso del dovere.
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Dopo la morte di tre fratelli, il quarto della famiglia Ryan risulta ancora in vita, e va riportato in patria da una madre che merita un sollievo dal dolore. Così il Capitano John Miller, accompagnato da un manipolo di uomini, decide di valicare le linee nemiche pur di salvare il ragazzo. La grandezza di Salvate il soldato Ryan non è certo nella sua trama essenziale, ma esibita da una messa scena impeccabile e da un lavoro di scrittura essenziale, che va all'osso del senso di appartenenza alla vita prima che alla patria. Immerso in una fotografia spenta dove gli occhi vengono messi in risalto da volti sporchi di sangue e fatica, il film di Spielberg sanguina e si avvinghia con tutte le sue forze ad un barlume di umanità. E, allora, eccoci qui a celebrare un grande film, un uomo la cui vita è valsa tante morti e un regista a cui va dato il merito di averci cullato per anni sulla sua altalena eternamente sospesa tra meravigliosa fantasia e cruda realtà.
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Lo sbarco in Normandia: dei remi facemmo armi
6 giugno 1944. Giorno meglio noto come D-Day. Passare alla storia attraverso la Storia. Questo ha fatto Steven Spielberg con la sequenza iniziale del film. Sequenza che va a ridefinire il concetto di "da antologia" nei manuali della settima arte. La celeberrima scena dello Sbarco in Normandia occupa i primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan riuscendo in un'impresa possibile solo ai grandi autori: trasformare il cinema in pura esperienza. Dopo un breve prologo, Spielberg non va per il sottile e scansa ogni fronzolo per catapultarci con veemenza nel cuore della Seconda Guerra Mondiale. L'approdo delle truppe statunitensi in Francia equivale ad un tuffo in un inferno di sabbia e proiettili.
Sembra di essere precipitati in un girone dantesco riservato ai soldati, dentro una pioggia incessante di esplosioni, urla e arti mozzati. Spielberg mette la camera ad altezza di soldato e ci fa accovacciare tra le truppe americane, ci fa respirare la loro paura, toccare la disperazione e sfiorarne il coraggio. Alla ricerca di un riparo, l'esercito americano viene travolto, impotente davanti alla raffica nemica, salvo poi trovare poco alla volta la lucidità per reagire. L'incipit del film, cruento e strabordante di morti atroci, è grandioso nel restituire allo spettatore un disorientante senso di impotenza, agevolato da una scelta registica ben precisa: rendere il nemico pressoché invisibile, in modo da percepirlo in maniera ancora più sfuggente. Un'intuizione poi esasperata da Christopher Nolan nel suo recente Dunkirk. Un altro che film che di spiagge e sangue ne sa qualcosa.
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Sentire la guerra: il sonoro del film
Vedere Salvate il soldato Ryan indossando delle cuffie equivale a comprare un biglietto di sola andata per il Nord della Francia occupata dai nazisti. Sì, perché se il film assomiglia davvero ad un'esperienza dal grande potere immersivo è soprattutto grazie a uno straordinario comparto sonoro (non a caso insignito di due Premi Oscar). Con una colonna sonora molto classica e canonico nell'alternare l'enfasi patriottica e nel sottolineare quelli di maggior tensione, Salvate il soldato Ryan si affida soprattutto ad un suono penetrante, alla presenza costante di rumori, sibili e boati che circondano personaggi e spettatori. Questo è un film che la guerra te la butta in faccia e te la fa sentire anche a occhi chiusi. Il suono dell'opera spielberghiana è molto più di un semplice sottofondo costante, ma un co-protagonista assoluto che fa sentire di continuo la sua decisiva presenza. Il caos bellico così oppressivo e claustrofobico onnipresente nel film, è reso grazie a un sonoro eccelso, dove ogni singolo proiettile viene avvertito dal suo punto di origine sino all'obiettivo. Senza dimenticare l'effetto ovattato delle orecchie che fischiano dopo un'esplosione, utilizzato più volte. Anche in questo caso Salvate il Soldato Ryan farà storia. Per informazioni su sonorità di guerra degne di nota, rivolgersi dalle parti delle serie tv Band of Brothers e The Pacific.
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Il punto di vista del narratore: prospettive diverse
Raccontare significa adottare un punto di vista. Combattere una guerra significa adottare un punto di vista. Consapevole di questo strano parallelismo, Spielberg cambia di continuo la prospettiva durante la messa in scena. Se alcune volte lo sguardo del regista si allontana dalla battaglia, cercando di essere oggettivo e distaccato nel rappresentare il conflitto, altre volte il suo punto di vista coincide con quello di un determinato soldato. Ci sono almeno due sequenze in cui la guerra è vista davvero con gli occhi di chi la sta combattendo. Succede prima quando penetriamo nello sguardo dello spaventato Upham (un eccelso Jeremy Davies), che si mantiene a debita distanza e assiste da lontano ad una carneficina. Poi, in maniera non molto diversa, al Capitano Miller, con Tom Hanks che scruta la disgrazia umana di cui è partecipe. Questa insistenza sulla guerra "personale", vista da e con occhi ben precisi, sembra quasi un antidoto con cui Spielberg cerca di contrastare l'anonimato, atroce destino di ogni soldato.
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I personaggi: nel cuore degli uomini
Un elmetto tra gli elmetti, un cadavere tra i tanti, un nome su una croce dentro un cimitero sconfinato. Come si lascia il segno in guerra? Come si sfugge all'ingorda massificazione bellica? La risposta va scovata nel terzo alleato a cui Spielberg si appella pur di cercare un briciolo di umanità in questa storia: le parole. Non solo immagini, non solo suoni, ma anche discorsi semplici tra uomini normali, pieni di dubbi, rimorsi e paure, mai eroi senza macchia e senza paura. Il manipolo di uomini guidato da Miller, infatti, è molto lontano dal classico gruppo integerrimo che segue ciecamente gli ordini dall'alto. I protagonisti di Salvate il soldato Ryan sono persone che si interrogano sul senso delle proprie azioni, sul valore della vita propria e altrui, sul senso della loro folle missione (perché otto uomini dovrebbero rischiare vita per salvarne una sola?). Sono attimi, scorci notturni simili a confessioni sussurrate, piccoli momenti in cui conoscere meglio la persona accanto alla quale, molto probabilmente, morirai. In questo campo minato di punti interrogativi, Spielberg ci tiene a caratterizzare ogni soldato, per svelarne paure, aspirazioni e talenti. C'è chi si sente un'arma nelle mani del Signore, chi è più disilluso e pragmatico, chi vorrebbe soltanto tornare a casa, e soprattutto chi è interessato alla vita di prima. In questo dettaglio decisivo, ovvero la volontà di scoprire il passato del Capitano Miller, Salvate il soldato Ryan svela la persona dietro il soldato, l'essere vivente dietro la pedina. Sino a quel finale commovente dove un uomo salvato da un imperativo (salvatelo) si aggrappa ad una grande domanda: "Ho meritato la mia vita?". Un dubbio che spesso solo la morte è capace di far germogliare nel cuore degli uomini.