Anche il festival di Berlino offre ai suoi spettatori una nuova testimonianza dei crimini americani in terra irachena. Stavolta tocca alle torture e agli abusi perpetrati dai soldati statunitensi nei confronti dei prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. In S.O.P.: Standard Operating Procedure, Errol Morris racconta, attraverso le voci dei carnefici, le storie dietro le famose fotografie della vergogna che hanno fatto il giro del mondo e che ritraggono le umiliazioni di mano americana sui detenuti durante il periodo della folle caccia a Saddam Hussein. A presentare il documentario a Berlino è il regista Errol Morris, vincitore del premio Oscar nel 2004 per The Fog of War, che in conferenza stampa è chiamato a rispondere alle numerose critiche mosse da chi, nel film, non ha ritrovato una giusta indagine su ciò che si cela davvero dietro le immagini di Abu Ghraib.
Il suo documentario è composto essenzialmente dalle interviste ai protagonisti degli abusi nel carcere di Abu Ghraib. Come ha fatto a convincere i soldati americani implicati in questo scandalo ad essere intervistati?
Errol Morris: Non ci sarebbe stato nessun film se non avessi potuto intervistare queste persone. Ci sono voluti due anni a convincerli a stare di fronte a una telecamera. Loro avevano un forte bisogno di raccontare le loro storie ed io mi trovavo nella posizione di poterli ascoltare. Tutti noi conoscevamo le foto, ma nessuno, di fronte a quelle immagini, sapeva cosa stesse guardando realmente, chi ci fosse dietro le macchine fotografiche. Tutti sanno le cose mostruose che sono successe ad Abu Ghraib, ma nessuno va oltre. Il mio documentario si concentra sulla storia di queste persone: sono i soldati gli unici colpevoli di quello che è successo in Iraq? Spero che questo film cominci a raccontare quello che non si conosce di questa guerra.
Il film esprime il punto di vista dei carnefici, mentre dei prigionieri non si sa nulla. Perché?
Questo film non ridarà certo la vita alla gente morta ad Abu Ghraib. Le torture che hanno dovuto subire queste persone sono state un tragedia umana e politica. Per me tutta questa vicenda è una delle più importanti della storia e le foto sono prove della realtà, sono un'evidenza che rappresenta il cuore del film. Abbiamo provato a parlare con le vittime delle torture avvenute ad Abu Ghraib e con un paio di loro abbiamo avuto colloqui per un anno, poi però non sono apparsi in video. Allora ci siamo concentrati sulla storia di questi soldati che si sono presi la colpa di ciò che hanno fatto e di queste foto che rivelano al mondo solo una parte di Abu Ghraib. Quella che racconto nel film non è la sola storia che si sarebbe potuta raccontare di questo posto, ma è quella che io ho scelto di portare alla luce.
Guardando il film si ha quasi l'impressione che lei si ponga come avvocato di questi soldati. Non pensa che ha un po' dimenticato la parte di indagine?
Negli Stati Uniti ci sono attualmente tanti articoli sulla distruzione di videotape di numerosi interrogatori. Le prove, le evidenze, stanno andando distrutte. Non si può mettere tutto in un film, io ho cercato di farci entrare il più possibile. Il resto probabilmente andrà su un sito internet creato appositamente per quello che è rimasto fuori dal mio documentario. Eppure anche nel film ci sono cose che nessuno sente in giro, come il fatto che anche i bambini venivano rapiti e messi ad Abu Ghraib, un crimine di cui non parla nessuno. Io ero interessato a raccontare le storie dei soldati che non sono i veri cattivi di questa storia, perché le colpe andrebbero ricercate prima di tutto nella politica del governo americano.
Pensa che queste persone si siano assunte realmente la responsabilità di ciò che hanno commesso?
Il mio non è un film in cui intervisto persone per convincerle a confessare qualcosa o per far loro esprimere il proprio dolore o i propri rimorsi. Volevo raccontare singole storie, perché ogni storia è diversa dalle altre. Per esempio, c'è questa ragazza, Sabrina, quella che ha scritto le lettere che vengono citate nel film, che è una delle protagoniste delle foto più famose scattate ad Abu Ghraib, come quelle in cui alza il pollice vicino al corpo di un prigioniero morto. Senza le sue foto non avremmo prove di questo omicidio. Sabrina è stata processata per aver scattato foto che hanno messo in imbarazzo gli Stati Uniti e il suo esercito, non per quello che ha fatto, ma lei non ha creato questi abusi, le erano preesistenti e sono stati testimoniati dai suoi scatti. Sabrina per me rappresenta un mistero. Ci sono queste lettere scritte di suo pugno nelle quali si descrive come una reporter sulla scena del crimine, ma la sua storia è piena di contraddizioni. Noi abbiamo questa idea di guardie carcerarie senza dimensione morale, ma tutte queste persone avevano la consapevolezza di ciò che stava succedendo e tutti erano complici nel commettere questi crimini. Per me fare un film su questa vicenda non è un modo per sentirmi dire "mi dispiace", ma per capire un po' di più di quello che è successo.
Perché ha scelto di fare un film su questo tema? Sembra quasi che il suo interesse si rivolga maggiormente alle immagini piuttosto che ai fatti dietro queste immagini.
Ho fatto il film per varie ragioni, per un mio interesse personale nelle fotografie, ma anche per il significato dietro di esse. Tutti ci siamo scandalizzati di fronte a ciò che ci veniva mostrato, ma in pochi si sono preoccupati di capire cosa volessero veramente dire, forse neppure chi le ha scattate. Io ho cercato di descrivere il mio orrore verso certi atteggiamenti americani.
Perché ha voluto integrare il suo documentario con ricostruzioni fittizie di ciò che è avvenuto in quel carcere? Perché non si è concentrato sulla verità pura?
Quest'idea che la verità sia garantita dallo stile di presentazione non la condivido. La verità è una ricerca, è qualcosa che si presume, è il processo di pensare e investigare il mondo per capire cosa è vero e cosa no. Nel film ci sono elementi di verità pura, come le interviste alle persone che raccontano i fatti dal proprio punto di vista, ma la ricerca della verità non deve essere raggiunta sempre con un preciso stile e con determinate regole. Bisogna scoprire cosa è realmente accaduto e gli strumenti per farlo possono essere diversi. Le ricostruzioni descrivono quello che si presume sia accaduto guardando le fotografie. Un documentario deve essere sempre agganciato alla realtà, ma tocca a noi riempire gli spazi vuoti: quanta onestà c'è nelle parole di chi si confessa su uno schermo? Probabilmente non molta, ma attraverso di esse possiamo raggiungere la realtà.
Le musiche del film sono di Danny Elfman, il compositore preferito di Tim Burton. Perché questa scelta?
Per molto tempo io e Danny volevamo fare un progetto insieme, poi è arrivata l'idea di questo film che può essere visto come un horror. Venivo da tre documentari con Philip Glass e avevo bisogno di qualcosa di diverso, e per la connotazione horror della vicenda ho pensato che il musicista perfetto per Standard Operating Procedure non poteva essere che Danny.
In un suo precedente film lei afferma che "non impariamo nulla dalla storia". La vicenda di Abu Ghraib le fa credere che sia ancora così?
E' vero, sembra che non impariamo molto dalla storia. Il mondo negli anni è cambiato molto e film come il mio sono importanti perché senza questo tipo di testimonianze non sapremmo niente di certi eventi. Di fronte a certe immagini, invece, siamo portati a fermarci a pensare. Era questo il mio intendo quando ho scelto di fare questo film: spingere le persone a riflettere sulle storie dietro le fotografie degli abusi ad Abu Ghraib.