Nel sogno qualcuno mi violentava... ma non un uomo, un essere non umano.
Quando Rosemary Woodhouse, con la schiena e le braccia segnate da misteriosi graffi, pronuncia questa battuta, il pubblico ha appena assistito a una scena scioccante, fra le più celebri all'interno del film Rosemary's Baby: uno spaventoso incubo che, per cinque minuti e mezzo, ci sprofonda in un'atmosfera via via più angosciosa, fino a culminare nel famigerato amplesso fra Rosemary e una creatura demoniaca, di cui ci limitiamo ad intuire le fattezze ed un fugace primissimo piano del suo volto mostruoso.
Se la lunga macrosequenza onirica di Rosemary's Baby mantiene ancora oggi una forza inoppugnabile, il suo impatto sul pubblico americano del 1968 dev'essere stato decisamente più poderoso. Perché in effetti mai prima di allora, in un film hollywoodiano prodotto da un grande studio come la Paramount, si era mai assistito a un tale, spiazzante connubio fra un surrealismo di impronta tipicamente europea - quell'apparizione finale del Papa è uno sberleffo blasfemo degno di Luis Buñuel - e un erotismo declinato in chiave perversa e bestiale: l'immagine inequivocabile di una belva infernale intenta a violentare la giovane protagonista inerme. Al suo risveglio, però, sarà il marito Guy ad attribuirsi quel rapporto sessuale, giustificato con una battuta agghiacciante: "It was kinda fun, in a necrophile sort of way" (nel più pudico adattamento italiano, quel "necrofilo" sarà mitigato con un innocuo "macabro").
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"In ogni appartamento succedono cose sgradevoli"
In questa alternanza di scene e di registri, l'orrore metafisico che si materializza nottetempo dall'inconscio e la spontaneità del mattino seguente, con quella nota di atroce umorismo, è racchiusa la natura multiforme di un'opera quale Rosemary's Baby: un film seminale come pochissimi altri, nella storia del genere horror, di cui avrebbe riscritto i canoni e le regole aprendo la strada a un intero filone di titoli successivi... incluso, almeno in parte, L'esorcista di William Friedkin, che rispetto alla pellicola di Roman Polanski presenta almeno qualche debito, a partire dalla centralità dell'elemento satanico. Quando, il 12 giugno 1968, Rosemary's Baby approda nelle sale americane, il romanzo omonimo di Ira Levin, uno degli autori di punta della narrativa di suspense, è negli scaffali delle librerie da poco più di un anno.
Ma prima ancora che il libro di Levin fosse dato alle stampe, l'acuto Robert Evans ne aveva già acquistato i diritti cinematografici, su esortazione dello specialista di B-movie William Castle. Castle, intenzionato a dirigere il film, si sarebbe poi limitato al ruolo di produttore, ingaggiando al suo posto il polacco Roman Polanski. Affermatosi sei anni prima con il suo sensazionale lungometraggio di debutto, Il coltello nell'acqua, Polanski ha già alle spalle quattro pellicole, l'ultima delle quali, Per favore, non mordermi sul collo, una gustosa parodia dell'horror classico, girata in inglese con finanziamenti statunitensi. E appena un anno dopo, per un bizzarro capriccio della sorte, Polanski si ritrova al timone di un progetto che innerva il genere dell'orrore di una sensibilità inedita, nonché dei fermenti culturali e sociali della fine degli anni Sessanta.
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"Pensa solo ad avere un bel bambino e nient'altro!"
L'incipit di Rosemary's Baby già sfodera il codice genetico dell'instant classic: la panoramica dell'Upper West Side di Manhattan, i titoli di testa in svolazzanti caratteri color fucsia e soprattutto quella sinistra nenia infantile, composta da un fedele collaboratore di Polanski, Krzysztof Komeda, e affidata alla voce di Mia Farrow. Ed è appunto la ventitreenne losangelina, nota all'epoca grazie alla soap opera I peccatori di Peyton Place e a un matrimonio ormai in dirittura d'arrivo con Frank Sinatra, a prestare il volto al personaggio eponimo: la dolce ragazza bionda che si è appena trasferita in un nuovo appartamento insieme al marito Guy (il grande John Cassavetes), attore di alterne fortune.
Ma fin da subito, ad intromettersi con melliflua invadenza nell'intimità della coppia sono i loro eccentrici condomini: Roman Castevet (Sidney Blackmer) e sua moglie Minnie, una parte affidata alla caratterista Ruth Gordon. Fin dalla sua prima apparizione, con un abito variopinto, il viso imbellettato sotto un ridicolo cappello bianco e la sua voce stridula, Minnie Castevet introduce un'ineludibile venatura grottesca all'interno del racconto: quella cifra grottesca, particolarmente congeniale a Polanski (si pensi al precedente Cul de sac o al successivo L'inquilino del terzo piano), che nella strepitosa Ruth Gordon trova un'incarnazione davvero impeccabile, tanto da averle fatto guadagnare il premio Oscar e il Golden Globe come miglior attrice supporter.
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"Si tengono dei sabba laggù..."
Il grottesco, appunto, e la suspense: sono le due variabili destinate a scombinare, a poco a poco, l'equazione della placida felicità di Rosemary. Tutto il film, del resto, viene vissuto attraverso i suoi occhi: Polanski inchioda la focalizzazione ad un'unica prospettiva, quella della sua protagonista, dalla quale la macchina da presa non si allontana neppure per un minuto. Una soggettivizzazione narrativa volta a neutralizzare qualunque pretesa di affidabilità, qualunque statuto di onniscienza: cosa sta veramente accadendo nel palazzo di Rosemary? È in atto un complotto da parte di una setta satanica con delle oscure mire sulla gravidanza della giovane o, al contrario, i sospetti sempre più opprimenti di Rosemary sono soltanto il frutto della sua immaginazione, come per la delirante Carol Ledoux di Catherine Deneuve in Repulsion, l'ideale film-gemello di Rosemary's Baby?
Se in Repulsion Roman Polanski costruiva un'inarrestabile discesa nella follia, Rosemary's Baby si fonda invece su un'ambiguità inestricabile, con un apparente realismo contaminato da lievi pennellate surreali. In questo senso, Rosemary's Baby costituisce davvero un imprescindibile punto d'arrivo, oltre che una nuova pietra miliare, per l'intero filone dei cosiddetti thriller di paranoia: l'evoluzione di una categoria della suspense che nei classici di Alfred Hitchcock, nume tutelare di Polanski, aveva trovato alcuni dei suoi massimi esiti (Rebecca, la prima moglie, Il sospetto, L'ombra del dubbio, La donna che visse due volte), così come in altri titoli d'annata quali Angoscia di George Cukor o Dietro la porta chiusa di Fritz Lang. Polanski adotta un meccanismo analogo e dissemina il film di tanti piccoli indizi (delle disgrazie fin troppo provvidenziali, un inquietante anagramma), infondendo in Rosemary una gravosa sensazione di minaccia.
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"Tu sei sua madre"
In filigrana, dietro la parabola che tramuta il desiderio di maternità dei Woodhouse in un incubo senza via d'uscita, è possibile intravedere ovviamente un risvolto satirico in linea con lo spirito del tempo: un attacco dissacrante ai valori della società borghese e all'ipocrisia insita nel mito della perfetta armonia familiare. Ma al di là delle interpretazioni socio-culturali, ricollegabili agli influssi e alle tendenze della nascente New Hollywood, se Rosemary's Baby ha resistito così bene alla prova del tempo il motivo risiede innanzitutto in un meccanismo drammaturgico di rara efficacia: vale a dire, nel modo in cui Roman Polanski adopera ogni elemento della trama e della messa in scena per portarci a quella peculiare condizione emotiva definibile, con un termine freudiano, come il "perturbante".
E in uno di quei ruoli (assurdamente ignorati dall'Academy) in grado di segnare un'intera carriera, Mia Farrow dà vita a un mirabile ritratto dei dubbi, delle ansie e delle ossessioni della maternità, fino ad un epilogo entrato di diritto negli annali della settima arte: la riunione di una bislacca congrega di satanisti nell'appartamento dei Castevet, con quell'imponente culla nera in un angolo del salone e il pianto di un neonato che non vedremo mai. Per indovinare chi - o cosa - giace in quella culla, ci dovremo far bastare lo sguardo sbarrato di Rosemary mentre, per la prima volta, fissa la creatura partorita dal proprio grembo. Eppure, pochi istanti più tardi sarà lei stessa ad accostarsi a quella culla per riassumere, nonostante tutto, la propria funzione di madre: l'ennesimo sberleffo alla tradizione del genere horror o piuttosto una certificazione dell'ineluttabilità del Male, come avverrà, sei anni dopo, anche nel finale nerissimo di un altro, iconico capolavoro del cinema polanskiano, Chinatown.