A cinquantasette anni, con Roma, Alfonso Cuarón è arrivato al traguardo. Non alla fine del suo percorso naturalmente, che le forze dell'universo ce lo conservino a lungo, ma è arrivato dove oltre non si può andare: tra i più grandi di tutti. Un film come Roma, prodotto da Netflix, acclamato dalla critica e premiato con un Leone d'oro all'unanimità ("Quando ho visto il film per la prima volta", ha dichiarato il presidente della giuria veneziana, e amico fraterno di Cuarón, Guillermo Del Toro, "ho detto ad Alfonso, non solo è il tuo film più bello, è uno dei miei cinque film preferiti di tutti i tempi. Ma non ti eccitare troppo, è il quinto"), che arriva dopo il successo di un'opera sci-fy "con sceneggiatura debole" come Gravity, è una consacrazione indiscutibile e sempiterna.
Ma Roma è anche un film che, per chi scrive, contiene preziose risposte che vanno incontro a suggestioni, a idee, a emozioni che hanno percorso il rapporto con l'intera filmografia di Cuarón; che rischiarano quella sensazione di predestinazione, di affinità, di amore, che emergeva ogni volta che la strada della vostra cronista si incrociava in qualche modo con quella del regista messicano, davanti a uno schermo o nei corridoi di un Palazzo del cinema o nelle passeggiate dei grandi festival europei. Anche diversi anni dopo che la presente scribacchina aveva abbondantemente passato l'età che giustifichi atteggiamenti da fangirl adorante.
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Perché, vedete, da appassionati di cinema, ma anche di letteratura, potremmo dire narrativa transmediale, ci troviamo spesso a scegliere tra cuore e ragione: Kubrick o Spielberg, Almodovar o Haneke, Scorsese o Eastwood, Anderson o Linklater - o ancora Bigelow o Campion, Ramsay o Jenkins, Coppola o Arnold, Varda o Polley, perché le grandi registe esistono e sono parecchie! Da bravi appassionati famelici e competenti, ci troviamo a ponderare quali aspetti siano più degni di considerazione nel valutare il valore di un film, se la fattura tecnica, la rilevanza socio-politica, l'impatto emotivo, la credibilità psicologica, la resa estetica.
Per chi scrive, Alfonso Cuarón è il regista che ha sempre sbaragliato tutte queste considerazioni, che ha sempre saputo offrire un cinema in cui la componente emotiva e umana andava sempre di pari passo con il virtuosismo tecnico e la visionarietà artistica. Un cinema completo: un cinema androgino.
Il silenzio di Cleo
La nostra tesi, dunque, è che a fare di Cuarón un regista capace di non sottovalutare nessun aspetto del medium espressivo e artistico di sua scelta ci sia un'esperienza di vita che lo ha messo a contatto con un mondo nascosto, negato dalla narrazione e dalla coscienza maschile: un mondo femminile di lavoro umile, di silenzio e di paura. Liboria Rodriguez, la "vera" Cleo, era una delle tante ragazze mixteche che lavoravano per famiglie bianche benestanti dei quartieri residenziali di Città del Messico: ma per Alfonso Cuarón la sua presenza discreta e timida, le sue cantilene in un'altra lingua, i suoi racconti e le sue vicende sono state un elemento profondamente fondante che ha contribuito a fare di lui un uomo profondamente in conflitto con il suo paese quasi quanto lo è con suo padre, e capace di coltivare, per contrasto, allo stesso tempo una visione culturale ampia e un profondo senso etico ed empatico.
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La scelta del bianco e nero, che serve in Roma a creare una dimensione altra e malinconica del ricordo, è anche, molto letteralmente, un riflesso del senso di colpa sulle dinamiche razziali e classiste che hanno coinvolto Cuarón durante gli anni formativi. Un'altra delle cifre stilistiche del film targato Netflix, l'attenzione religiosa e meticolosa al dettaglio, ai gesti, alle routine, si accompagna alla figura di Cleo e alle sue attività quotidiane, alla ricerca di una dimensione intima e rimossa del lavoro domestico (sfruttato) femminile. Il silenzio, l'abnegazione con cui Cleo affronta le sue infinite mansioni di tata e di domestica, le pulizie, la spesa, la cucina, i bambini, fino a quella cerimonia interminabile dello spegnimento notturno di tutte le luci della casa, e con cui incassa i rimproveri ingiusti e le frustrazioni dei padroni si riflette nella sua sfera sentimentale, nella sua incapacità di dare voce ai propri desideri e alle proprie sofferenze, e poi nel mutismo in cui si chiude dopo la perdita della sua bambina. Così, nel suo percorso, da rievocazione sognante di un mondo infantile Roma si trasforma e trova la sua autentica missione: dare voce a chi non l'ha mai avuta.
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La vita segreta delle donne
La scelta di casting di Yalitza Aparicio, nativa di Oaxaca come Libo e come Cleo, di padre mixteco e madre trichi, per il ruolo di Cleo è testimonianza di integrità e autenticità; per l'altra donna fondamentale della vita di Cuarón, la madre, è giustamente stata scelta un'attrice più consumata di impostazione "tradizionale" e di aspetto caucasico/europeo come Marina de Tavira; il regista e sceneggiatore non fa sconti alla fragilità e alla miopia di questa donna capace di comprendere la ragazza che vive sotto il suo stesso tetto solo quando è troppo tardi. Tuttavia è Sofia, egoista nel suo smarrimento laddove Cleo non smette mai è spendersi per gli altri, ma anche più colta e consapevole, a cui spetta di pronunciare la grande e desolante verità del film: "Non importa quello che ti dicono, siamo sempre sole." Sole perché abbandonate dagli uomini - e quanto deve essere doloroso per un figlio ritrarre una madre che profonde in un disperato abbraccio al marito in fuga tanta inadeguatezza, tutto lo sgomento di una donna che ha costruito tutta la sua vita sulla fiducia in un uomo - ma soprattutto sole perché incapaci di parlarsi, di aiutarsi l'una con l'altra a causa dei vincoli e prigioni socio-economiche e di un sistema patriarcale che osteggia la solidarietà tra le donne.
Alla fine Sofia, cambiata in qualche modo dalle avversità e da un percorso di indipendenza che l'ha resa più umile e sensibile, sembra capace di vedere davvero Cleo, al punto di indurla a fare la terribile confessione che la paralizza. Le parole di affetto e conforto di Sofia, l'abbraccio dei ragazzi, la meravigliosa immagine di amore inclusivo che chiude il film, non rappresentano la conciliazione del rapporto tra le due donne, né dei conflitti che lacerano il Messico ancora oggi, ma rappresentano uno sforzo positivo e una speranza: quella incarnata dal bambino che ripartì da quell'abbraccio per diventare l'uomo e l'artista che applaudiamo oggi, capace di fare della vita segreta delle donne, rimossa e silenziosa ma immensamente ricca, la forza del suo cinema.