"Non ho mai avuto grandi simpatie per gli attori. In questo caso, però, mi sono appassionato alle storie a volte feroci e sconosciuti di questi attori non famosi. In modo particolare a muovere i miei passi è stata soprattutto la voglia di esplorare nelle loro frustrazioni, i dolori e le malinconie che li accompagnano."
A parlare in questo modo è il regista Marco Risi, durante la presentazioen del suo Tre tocchi al Festival di Roma. L'ispirazione del film è arrivata dalla partecipazione alla nazionale italiani attori e dalla confidenza creatasi giorno dopo giorno dall'intimità dello spogliatoio con i compagni di squadra. Nello specifico, però, tutto è partito dal racconto di uno dei protagonisti, Leandro Amato, e dalla sua fuga da Napoli per scappare ad una probabile vendetta. Da qui, Risi ha cominciato ad interessarsi sempre di più alle storie di questi ragazzi, selezionando sei vicende e sei protagonisti su cui ha costruito lo scheletro narrativo di un film realizzato con pochi soldi e in modo del tutto indipendente grazie all'intervento di Andrea Iervolino.
La dignità dell'attenzione
Dal campo di gioco allo spogliatoio, Risi ha cominciato a mettere a fuoco una realtà che probabilmente ancora non conosceva, ossia la condizione e lo stato d'animo di chi si trova sempre a richiedere l'attenzione altrui per veder qualificato è riconosciuto il proprio talento. "Quello dell'attore forse è il lavoro più precario che possa esistere, visto che dipende sempre ed esclusivamente dalle decisioni altrui - ammette il regista - Il produttore o il regista non ti prende perché sei troppo alto, basso, vecchio o giovane. A questo punto mi sono chiesto che cosa succede nell'animo di un attore dopo un provino andato male? Quelli che vogliono fare veramente questo mestiere attraverso quali frustrazioni e illusioni passano? Così ho cominciato ad interessarmi all'anima degli attori."
Attori come noi
Al centro del racconto, dunque, ci sono Antonio, Emiliano, Gilles, Leandro, Max e Vincenzo. Tutti loro condividono le fatiche e gli sforzi per rendere il più concreta possibile l'illusione di un sogno accettando gli alti e i bassi di un mestiere a suo modo pericoloso e pericolante. "Noi parliamo delle nostre esperienze perché facciamo questo mestiere - spiega Leandro Amato - ma tutti hanno dei sogni che vogliono realizzare. Nel nostro mestiere la precarietà e molto più elevata" . A lui risponde Antonio Folletto, il più giovane del gruppo "Ho conosciuto Risi grazie al provino per questo film. Io non ero un ragazzo della squadra. Lo sono diventato dopo. Però mi sono reso conto che alcune caratteristiche del personaggio, costruito sulle esperienze di un altro attore, mi si adattavano alla perfezione. Una volta entrato nella squadra, poi, mi sono reso conto di cosa vuol dire stare in un gruppo dove ogni singolo elemento vuole arrivare al medesimo obiettivo." Un po' sbruffone come il suo personaggio è Gilles Rocca che ammette, con molta onestà e gratitudine, di dovere molto del suo sostentamento ai fotoromanzi. "Questo fatto in particolare è stato il fulcro di una rivalità goliardica con un altro attore del gruppo che veniva dall'Accademia. Su noi due Marco ha costruito due diversi personaggi. Lui, però, non ha potuto interpretare la parte ed è stato rimpiazzato da Antonio. Così è successo che io sono finito in un film di Marco Risi e lui sta facendo la fiction Squadra antimafia - Palermo oggi."
L'assenza delle donne
Il film, che uscirà in poche copie il 13 novembre, ha un'impronta fortemente maschile non fosse altro per il fatto di prendere spunto da un campo da gioco. Oltre questo aspetto formale, però, lascia un po' esterrefatti il modo in cui la figura femminile viene lasciata sempre sullo sfondo come comparsa o elemento di cui abusare. "Il film ha a che fare con gli uomini. E poi le attrici non giocano a calcio - risponde inizialmente con un tentativo di umorismo Risi - mi rendo conto che può avere dei momenti disturbanti ma non ha alcuna intenzione offensiva o discriminante. Quello che vedete sono fatti che possono accadere veramente e li ho voluti raccontare. Mi rifaccio un po' all'esperienza vissuta con Il branco. Ricordo che a Venezia Uma Thurman si era mossa per bloccare la proiezione. Io, però, volevo raccontare quella violenza con gli occhi del carnefice e non della vittima. In questo modo mi sembrava di andare contro un certo perbenismo. E con questo film ho sentito di poter fare la stessa cosa."