Rocco è 'nu santo, ma nel mondo che può fare? Uno cumme lui che non se vole defende. Lui perdona sempre a tutte quante... invece nun sempre bisogna perdonà.
Quando Rocco e i suoi fratelli fa il suo debutto nelle sale, il 14 ottobre 1960, mancano appena cinque mesi al centenario della nascita dello Stato italiano. E per un paese impegnato, specialmente dalle tribune della politica, a celebrare le "magnifiche sorti e progressive" del Boom economico e la propria trasformazione in nuova potenza industriale europea, un film come quello diretto da Luchino Visconti costituisce quanto di più stridente rispetto a uno spirito di orgoglio nazionale refrattario a qualunque voce critica o discordante. Inevitabile, dunque, che l'impatto di Rocco e i suoi fratelli non resti circoscritto all'ambito cinematografico, ma si estenda ad un piano ben più trasversale.
L'uscita della pellicola, accolta da uno straordinario successo (dieci milioni di spettatori solo in Italia), è preceduta da oltre un mese di polemiche infuocate. Presentato in concorso alla Mostra di Venezia del 1960, Rocco e i suoi fratelli è considerato dalla stampa come il titolo più meritevole e l'assoluto favorito, fin quando le pressioni sulla giuria non sfoceranno in uno dei verdetti più discussi nella storia del Festival: il Leone d'Oro è assegnato a sorpresa a Il passaggio del Reno di André Cayatte, mentre a Luchino Visconti viene attribuito uno speciale Leone d'Argento, che il regista milanese si guarderà bene dal ritirare (la Mostra farà 'ammenda' cinque anni più tardi, con il Leone d'Oro per Vaghe stelle dell'Orsa...).
1960: Fellini, Visconti e la rivoluzione del cinema italiano
Cronaca delle tormentate vicende di una famiglia lucana che si trasferisce a Milano in cerca di fortuna e di opportunità lavorative, Rocco e i suoi fratelli segna una delle punte di diamante dell'ineguagliabile "anno d'oro" del cinema italiano. Nel 1960 si assiste infatti alla realizzazione di alcuni tra i più significativi classici dell'epoca: aperta, a febbraio, da un altro contestatissimo film-evento quale La dolce vita di Federico Fellini, l'annata prosegue con Il bell'Antonio di Mauro Bolognini, L'avventura di Michelangelo Antonioni, La maschera del demonio di Mario Bava, Adua e le compagne di Antonio Pietrangeli, Tutti a casa di Luigi Comencini e infine La ciociara di Vittorio De Sica. Pellicole come La dolce vita e L'avventura contribuiranno a rivoluzionare il linguaggio filmico, aprendo tuttavia un dibattito sempre più infuocato.
Se già Fellini si era attirato gli strali della classe dirigente per aver esplorato l'abisso morale e la perdita di punti di riferimento del microcosmo dipinto ne La dolce vita, Visconti scava ancora più a fondo nel tessuto sociale dell'Italia a cavallo fra i due decenni, raccontando il fenomeno dell'immigrazione interna non come una spinta ulteriore nel progresso economico del paese, ma come un atto di sradicamento incapace di garantire piena equità e integrazione a chi, dal Mezzogiorno, cerca di inserirsi in una realtà sconosciuta e spesso ostile. L'iniziale entusiasmo dei fratelli Parondi e dalla matriarca Rosaria (l'attrice greca Katina Paxinou) al loro arrivo alla stazione di Milano sarà incrinato appunto dagli eventi che, da lì a breve, mineranno una precaria unità familiare.
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Tra neorealismo, melodramma e Dostoevskij
È la ragione per cui Rocco e i suoi fratelli, per quanto adorato da critica e pubblico, risulterà un film tanto controverso: lo sguardo di Luchino Visconti sull'Italia del Boom è troppo disincantato per ricevere l'approvazione del mondo della politica e per accordarsi al clima dell'imminente centenario. Ma è proprio la profondità di quello sguardo, la sua lucidità che però non esclude il trasporto emotivo, a rendere l'opera di Visconti uno dei capolavori nella produzione del regista, nonché il progetto più coraggioso e complesso nella prima fase della sua carriera. Una carriera che Visconti, amante della letteratura e del teatro, aveva imperniato sulle trasposizioni dalla narrativa: il James M. Cain de Il postino suona sempre due volte (fonte non dichiarata di Ossessione), Giovanni Verga (La terra trema), Camillo Boito (Senso) e Fëdor Dostoevskij (Le notti bianche).
In Rocco e i suoi fratelli ritornano di nuovo Dostoevskij e, in generale, la letteratura dell'ultimo secolo (Giovanni Verga e Thomas Mann, con l'omaggio del titolo a Giuseppe e i suoi fratelli), contaminati però con la Milano raffigurata da Giovanni Testori nelle novelle de Il ponte della Ghisolfa. Frutto di una collaborazione a più mani in fase di scrittura (alla sceneggiatura di Visconti e Suso Cecchi D'Amico prendono parte Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa ed Enrico Medioli), Rocco e i suoi fratelli è attraversato da diverse anime: le radici neorealiste di Visconti, con un'attenzione per gli strati più bassi della gerarchia sociale; la natura di grande romanzo popolare, con il suo impianto da affresco corale (per quanto focalizzato su due dei cinque fratelli); e la passione per il melodramma, che si manifesta in tutta la sezione centrale del film.
Le relazioni pericolose: Rocco, Simone e Nadia
Luchino Visconti, in fondo, è il regista del melodramma per eccellenza del nostro cinema, ma qui gli elementi canonici del genere vengono inseriti dentro una cornice concreta, quotidiana, in cui gli spettatori del 1960 possono riconoscersi facilmente. E in questo sincretismo, nella scelta di rappresentare l'Italia contemporanea adottando l'intensità e il respiro dei romanzi del passato, risiede il fascino senza tempo di Rocco e i suoi fratelli, così come dei ritratti del suo indimenticabile terzetto di protagonisti: Rocco, il ragazzo sensibile e generoso con i tratti delicati del ventiquattrenne Alain Delon; Simone (Renato Salvatori), il fratello 'dannato' che precipiterà in un vortice autodistruttivo, trascinando con sé anche gli altri; e Nadia (Annie Girardot), la prostituta destinata ad attrarre entrambi i fratelli.
Il capolavoro di Visconti si fonda su tale apparente contrasto: da un lato lo scrupoloso realismo nel descrivere un preciso contesto geografico e sociale, dall'altro la dimensione archetipica entro cui si scatena il conflitto fra Rocco, quasi un alter ego dell'ingenuo Principe Lev Myškin de L'idiota di Dostoevskij, e Simone, il suo 'doppio' più inquieto e demoniaco, di cui Rocco seguirà suo malgrado le orme - prima nel pugilato, poi nell'amore per Nadia - tentando al contempo di salvarlo dal baratro. Intorno a loro, il film disvela tutto il cinismo e l'opportunismo che gravano sull'ambiente del sottoproletariato milanese, sintetizzati dal manager dei pugili Duilio Morini (Roger Hanin) e dalla sua ambigua doppiezza nei confronti di Rocco e di Simone.
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Due fratelli fra innocenza e dannazione
All'aura di scandalo che viene a crearsi attorno al film di Visconti sono legati pure i momenti più estremi di questo triangolo amoroso, che saranno puntualmente oggetto di censura: la scena dello stupro di Nadia, con il dettaglio del lancio delle mutandine sul volto di Rocco, e la climax tragica in cui la donna, allargando le braccia al cospetto del proprio aggressore, si produce in una sorta di imitatio Christi. La dissoluzione della famiglia, uno dei leitmotiv del cinema viscontiano, giungerà al culmine mentre Rocco festeggia la propria vittoria sul ring: la dicotomia tra il "fratello buono" e il "fratello cattivo", fra l'istinto di solidarietà e l'impulso alla violenza, è suggellata nell'ultimo, viscerale abbraccio fra i due giovani, quando ormai per Simone non c'è più possibilità di redenzione.
Per Renato Salvatori, divo della commedia all'italiana grazie a successi come Poveri ma belli e I soliti ignoti, quello di Simone sarà uno dei primi ruoli drammatici, ruolo a cui Salvatori conferirà una carica irruenta e un oscuro senso di nevrosi. Ma Rocco e i suoi fratelli è soprattutto l'opera della consacrazione di Alain Delon, lanciato nello stesso anno da René Clément nei panni di Tom Ripley nel noir Delitto in pieno sole: la bellezza efebica dell'attore francese, con quell'accenno di fragilità adolescenziale sul viso, sarà il tratto distintivo di un protagonista innocente e 'angelicato'. Un protagonista che, nella chiosa del fratello Ciro (Max Cartier), viene definito un "santo" in un mondo in cui "non sempre bisogna perdonare"; quel mondo che il film di Visconti riesce a restituirci con una forza e una vividezza in grado di catturarci ancora oggi.