Un bosco a pochi passi dal litorale romano, un gruppo di ragazze nigeriane vittime di tratta e un sottobosco di clienti che attorno a quella frontiera si aggirano quotidianamente. Un altro luogo di confine per Roberto De Paolis, che dopo Cuori puri torna sul tema della marginalità con Princess, un film frutto di mesi di ricerche trascorsi a osservare quelle donne, parlarci e capire le loro storie e che a un anno quasi dalla sua presentazione a Venezia, continua il suo fortunato cammino e arriva in concorso al Bellaria Film Festival (dal 10 al 14 maggio), la casa del cinema indipendente. Il regista ce lo racconta così.
Il futuro dei film indipendenti
È passato quasi un anno dalla presentazione del film a Venezia e dalla sua uscita in sala. Che viaggio è stato?
Molto faticoso, in uno scenario dove i film indipendenti soffrono tanto. È difficile riuscire a fare film in cui si crede e che allo stesso tempo abbiano una visibilità dignitosa in sala, facendoli vedere a un pubblico che non sia solo quello dei Festival. È stato complicato soprattutto farlo in quest'epoca in cui prima con la pandemia poi con le piattaforme tutto sta cambiando. Il cinema indipendente soffre di più rispetto a qualche anno fa.
Come garantire un futuro al cinema indipendente nel bel mezzo di una rivoluzione di linguaggi e mezzi?
Credo che la via migliore sia l'adattamento, che ha sempre contraddistinto l'umanità. Bisogna trovare il modo di mantenere un'identità, ci sono dei film d'autore molto forti che hanno la capacità di raccontare qualcosa con un ritmo e una drammaturgia più intensa rispetto alla maniera tradizionale, come ad esempio Close di Lukas Dhont. Una storia dardenniana, se vogliamo, dove in un'ora e mezza pur mantenendo un'impronta fortissima, si racconta un succedersi di cose molto fitto come l'amicizia, la morte e l'elaborazione del lutto. È una scelta figlia di questo momento, probabilmente dieci anni fa quello stesso regista avrebbe fatto un film migliore raccontando meno cose, oggi invece si pone il problema, perché il pubblico è abituato a film dove ogni quarto d'ora succede qualcosa.
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Il lavoro sul set: conquistare la fiducia
Hai sempre detto di aver voluto raccontare con Princess il mondo degli immigrati da un punto di vista interno e non attraverso la rappresentazione stereotipata imposta dall'immaginario collettivo. Che tipo di reazione c'è stata da parte della comunità che invece quelle storie le vive quotidianamente?
Si sono riconosciute molto in questo film, proprio perché è stato fatto con loro. Mi ha sempre dato fastidio l'idea di fare un ritratto degli immigrati usando il nostro metro di giudizio sulle cose. Possono essere anche dei buoni film, ma saranno inutili, il problema è che non riusciamo a vederli come persone. Kevin Glory, la ragazza che interpreta la protagonista, mi ha dato tantissimi problemi, in alcuni momenti sono arrivato anche a maledirla, come lei ha fatto con me, ed è stato possibile perché stavamo in una relazione paritaria in cui ha avuto la possibilità di venire fuori come persona. Cosa che in genere non fanno, hanno delle fratture, della rabbia e molti più problemi di noi, ma li nascondono per poter convivere con il nostro mondo. Mi piace molto il modo in cui ha lavorato, a volte è scortese e spiazzante, è una persona. Le ragazze hanno visto il film con grande leggerezza, siamo stati piuttosto noi a chiederci per un mese come farglielo vedere e a farci delle pippe mentali inutili, mentre loro erano tranquille, stavano lì con i loro bambini, li allattavano, ridevano, una si è alzata, è andata fuori ed è tornata un quarto d'ora dopo. L'idea che potessero rivivere o rielaborare il trauma della strada era solo un nostro pensiero, a loro non importava. Si è trattato quasi di un gioco, era molto più importante che avessero fatto un lavoro e fossero state pagate, e per la prima volta non per prostituirsi.
Anche il set è stato vissuto come un gioco?
Non solo. Glory a un certo punto è diventata molto star, trattava male tutti e si infastidiva se qualcuno arrivava al trucco, si comportava paradossalmente come una star americana, aveva capito di avere un potere incredibile: immagina di aver vissuto sulla strada per cinque anni e poi improvvisamente dei produttori importantissimi decidono di fare un film su di te e se la mattina non ti svegli, non si gira. È stato interessantissimo vedere come fosse passata dall'essere costretta a prostituirsi di notte in una via trafficata di Roma, in un luogo da incubo, all'essere catapultata in un mondo in cui tutto dipendeva dal suo mood.
Come hai conquistato la loro fiducia?
Facendole sentire alla pari, il loro incubo era quello di sentirsi sfruttate ed è normale visto il passato di sfruttamento che hanno alle spalle. Perciò ho cercato di fargli capire che volevamo coinvolgerle in un rapporto paritario, di scambio. Quando questo concetto passava si tranquillizzavano ed erano più disposte al dialogo.
Storie di marginalità e zone di confine
Anche qui come succedeva in Cuori puri, indaghi una marginalità: lì si trattava di una comunità religiosa qui è quello delle prostitute nigeriane sul litorale romano.
Mi piace fare film su quello che non conosco o che forse non ho il coraggio o la voglia di affrontare nella vita. Sono attratto da mondi nuovi, che non mi appartengono. Questo ovviamente è il mio pensiero, poi ci sono tante persone che invece amano fare film su se stessi...
Anche gli spazi dei tuoi film sono importanti: in Cuori Puri tutto inizia nel parcheggio di un supermercato, in Princess c'è invece il bosco.
Passiamo troppo tempo nelle case, lo vedo anche con i bambini avendone due; non c'è più la vita nella strada, come succedeva a me da piccolo o nelle realtà di provincia. Nelle grandi città in generale siamo tutti arroccati nelle nostre case, a Roma per tornare alla magia degli anni '60 o '70 deve nevicare, solo in quel caso vedi i bambini uscire per strada a giocare, altrimenti la gente sta sempre a casa davanti agli schermi. Io invece sento la necessità di stare fuori e tutte e due le volte in cui mi è capitato di pensare a un film l'ho fatto immaginando dei luoghi esterni dove poi i personaggi si ritrovano a dover sopravvivere in condizioni di difficoltà. Dal punto di vista cinematografico lo trovo molto più stimolante rispetto a fare dei film su persone che stanno dentro casa e hanno il problema di andare d'accordo o di come stiano con se stessi. A me piace fare dei film dove i personaggi hanno dei problemi concreti, e trovo interessante andare a vedere che cosa succede nelle vite delle persone che non sanno come sopravvivere quando tornano a casa la sera.
Esplori sempre zone di confine tra due mondi e questo succede anche nel tuo continuo barcamenarti tra la regia e la produzione. Quante volte hai litigato col te stesso produttore?
Ho creato la Young Films per produrre il mio primo lungo e fare un film libero, perché non è scontato trovare dei produttori che ti permettono di esserlo. I film d'esordio devono essere liberi, poi si può stabilire se un regista ha talento o meno, ma quella possibilità gli va data. Credo che chiunque voglia fare il regista e si prenda la responsabilità di farlo, con l'esordio dovrebbe essere messo nelle condizioni di fare il film che vuole. Faccio il produttore per aiutare i registi e provo a far capire agli altri quanto soffrano, perché non si rendono conto cosa significhi ad esempio per un regista tagliare venticinque pagine perché "sono troppe" e non c'è tempo.
Un cinema libero e privo di giudizi
Anche usare attori non professionisti è una sfida produttiva, una scommessa che non tutti sono disposti ad appoggiare. Tu ci sei riuscito.
È strano, perché in Italia lo abbiamo fatto per tanto tempo, soprattutto combinando attori professionisti e non. Poi questa lezione è andata un po' perduta, oggi è o tutto non professionisti o tutto star system, invece a me piace anche l'idea di chiamare ad esempio un amico a lavorare con me, o un critico, come facevano spesso Fellini o Pasolini, non era considerata una cosa strana. Fare un film con i non professionisti è più divertente, hai più tempo per lavorarci, hanno una passione più grande degli attori che magari hanno fatto già quattro film in un anno, sono più selvaggi; c'è invece chi odia doverci lavorare perché sono fuori controllo, li devi gestire e non sanno imparare le battute a memoria.
E come è stato il rapporto tra Glory Kevin e Lino Musella?
Veramente difficile, un po' come succede nel film, ma quando abbiamo girato si sono trovati. È successo in uno di quei momenti di tenerezza che si creano tra i loro personaggi. Prima è stato tutto uno studiarsi con diffidenza e sperare che a un certo punto qualcosa cambiasse. Lei non lo vedeva di buon occhio, perché sapeva che quel personaggio l'avrebbe poi messa in discussione, non lavorando da attrice pensava che dovesse succedere veramente ed era spaventata da quello che poteva accadere in scena con Lino, il confine tra realtà e finzione non le era molto chiaro. Così sono nati dei veri e propri momenti di improvvisazione, con battute che non esistevano in sceneggiatura.
Rispetto al diritto di una persona di raccontare un mondo che non gli appartiene, ti è mai stata mossa qualche critica?
Sì, a volte, e per me è inconcepibile, mi fa orrore. Si possono fare film ambientati nel 300 D.C. dove non siamo mai stati senza neanche la possibilità di parlare con persone che abbiano vissuto quell'epoca, però non puoi fare un film su una ragazza che si prostituisce a pochi metri da te, dove invece puoi andare, parlarci, stare con lei e capire come si sente. Princess è una testimonianza, è un impegno a raccontare la loro vita; non accetto la critica di chi mi accusa di essere un benestante, ricco, bianco che si è messo a raccontare la vita di una povera ragazza nigeriana, la accetterei se non avessi fatto un minimo di ricerca. È solo un inutile moralismo. In un festival ad esempio non lo hanno voluto, trovavano inaccettabile che avessi fatto un film in cui, ci hanno detto, "i clienti non sono cattivi" e "lei si diverte a fare la prostituta". Una follia.