O vivi da Pinocchio, o vivi tanto a lungo da diventare Geppetto. E in questo legame forte, viscerale, che tiene legato Roberto Benigni all'opera di Claudio Collodi, ci voleva l'intermissione di Matteo Garrone per riavvicinare l'attore e regista toscano a quell'universo da lui stesso portato in vita (con scarso successo, soprattutto in terra americana) nel 2002. Dopo una lunga assenza dalle scene, Roberto Benigni sembra dunque pronto a fare il suo ritorno trionfale, riassaporando le pagine consunte del classico letterario dando vita al suo Geppetto.
L'irriverenza e la dinamicità che vivevano nel Benigni del 2002, lasciano il posto oggi a un uomo più maturo, invecchiato nel fisico ma non nello spirito, sempre dominato da quel fanciullino di pascoliana memoria. È il cerchio della vita che scorre e che porta il giovane di ieri a diventare il padre di oggi: da Pinocchio Roberto Benigni diventa Geppetto.
Un'evoluzione dei personaggi e dello stesso attore, che risente del tempo che scorre e del pubblico che cambia: in questo articolo analizzeremo ciò che ha portato Benigni a interpretare entrambi i personaggi, il burattino Pinocchio e il falegname Geppetto, colonne portanti di quello che è un capolavoro non solo della letteratura nostrana ma anche di quella del resto del mondo.
Pinocchio, il bambino di legno di Collodi
Nel suo L'œuvre de l'art, Gérard Genette afferma che le opere d'arte non esistono solo perché rinchiuse all'interno di oggetti, siano essi testi letterari, quadri o pellicole cinematografiche. Le opere esistono perché si moltiplicano in più coesistenze, modificando la propria natura in base al proprio pubblico e ai tempi che cambiano. E quella di Collodi (all'anagrafe Carlo Lorenzini) è un classico che ha vissuto una e più esistenze. Supera lo scorrere degli anni, Pinocchio, trasformandosi in cartone animato (come quello firmato da Walt Disney nel 1940, o quello di Enzo D'Alò del 2012) in film più o meno conosciuti, e in fonte di ispirazione per altre opere, come A.I. intelligenza artificiale di Steven Spielberg (a sua volta basato su un progetto di Stanley Kubrick tratto da un racconto del 1969 di Brian Aldiss, Supertoys che durano tutta l'estate) pellicola in cui il piccolo robot, proprio come Pinocchio, aspira a essere un bambino vero. Quello di Collodi era davvero un romanzo del tutto inedito e anticipatore dei tempi. A impreziosirlo, un linguaggio capace di parlare sia ai bambini che agli adulti, mescolando favola e realtà, sarcasmo e scherno, parodia e critica sociale. Ad abitare le sue pagine infuse di dicotomia e ossimori continui, sono personaggi vivi, concreti, drammatici, ma allo stesso tempo caricaturali.
Un coacervo di esistenze stralunate e particolari, capitanate da lui, il più umano e umile di tutti: il falegname Geppetto, uomo così pieno di amore da infondere vita a un burattino. Quella di Geppetto è la perfetta commistione di dramma e commedia, e proprio per questo non c'è stato nessuno meglio dei comici - cantori sprezzanti del mondo che li circonda, e abili affabulatori di denunce contro la surreale follia della società - a riportare sullo schermo questo iconico personaggio: dall'indimenticabile Nino Manfredi nella trasposizione televisiva di Luigi Comencini, a Carlo Giuffré, fino a Roberto Benigni nell'ultimo film di Matteo Garrone. Era un progetto inseguito da tempo quello del regista di Gomorra e di Dogman, ma che per un motivo o per un altro gli sfuggiva via. Pinocchio gli scivolava tra le mani, correva perdendosi nei meandri del mondo per poi far ritorno, finalmente, a casa. E così, dopo 45 anni dal primo storyboard (pare che il regista avesse solo sei anni quando concepì la prima idea per il suo film) Garrone, come Geppetto, ha finalmente concluso il suo piccolo, personale, gioiello di fanciullesca memoria.
Pinocchio al cinema, da Walt Disney a Matteo Garrone
Benigni e la trasformazione in Pinocchio
Mi perseguita da tanto tempo. Prima mi accarezzava, ora mi sconquassa. Me lo sogno proprio: con quel naso, il cappellino di mollica di pane, il vestitino di carta fiorita. Che sdipanamento di felicità! Mi furibonda la vita.
È da questa bellissima ossessione, tradotta in dichiarazione d'amore per la storia di Collodi e rilasciata alla penna di Eugenio Scalfari nel 2001, che Roberto Benigni si fa possedere anima e corpo. Lo rilegge quel romanzo così unico, così prezioso. Lo fa suo e ricerca nel suo corpo di uomo cinquantenne quella vitalità infantile, quel sorprendersi per mondi nuovi e concetti privi di risposte, che illuminano gli occhi dei bambini. Pagina dopo pagina, il bambino di legno, creato dalle mani del padre, inizia a prendere vita con la stessa difficoltà e forza immaginifica con cui un film nasce dallo sguardo del suo regista. Kolossal di stampo italiano, con un budget ultra-milionario, Pinocchio esce nelle sale italiane nel 2002, a quattro anni di distanza da quel La vita è bella che lanciò l'attore e regista toscano nel firmamento hollywoodiano portandosi a casa ben 3 Oscar e il plauso di critica e pubblico.
Lontano dalle provocazioni di Cioni firmate insieme a Giuseppe Bertolucci (indimenticabile la sua performance in Berlinguer ti voglio bene) e messa a tacere la sua vena più irriverente con cui ha trattato attraverso lo strumento comico dell'equivoco tematiche scottanti come il mostro di Firenze, o il pentitismo mafioso, Benigni si fa cantore di storie e opere letterarie che hanno fatto grande l'Italia. La sua attenzione è ora rivolta alla (ri)lettura sul piccolo schermo di un classico il Pinocchio di Collodi. Un'opera maestosa, impegnativa, studiata e impregnata di quella dinamicità tipica del suo autore, che non riesce però a equilibrare le varie parti, straripando come un fiume in piena.
Ad alimentare una critica straniera alquanto astiosa, ci pensò anche un duro attacco partito da più fronti che non perdonava a Benigni di non aver incluso sui manifesti del film il nome del creatore di Pinocchio, Carlo Collodi. La risposta del regista non si fece attendere, sottolineando l'insensatezza e sterilità della polemica: "Collodi è un'assenza che più presenza non si può, è come dire che la Bibbia è tratta dall'omonimo romanzo di Dio. Tutti al mondo sanno che Pinocchio è di Collodi". Per quanto il risultato finale del film firmato da Benigni non riesca a soddisfare le attese sperate, Benigni racchiude perfettamente in sé l'essenza del suo personaggio. Una completa assimilazione, tale da rendere impossibile distinguere il personaggio dall'interprete; la creatura dal creatore.
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Da bimbo eterno a padre premuroso: Il Geppetto di Garrone
E così l'ultimo pezzo di legno è stato livellato; il bambino mai avuto, sebbene di composizione lignea, si erge dinnanzi a Geppetto. Poi una voce squillante urla "babbo!". Lo sguardo immerso nel suo lavoro di un Roberto Benigni strapazzato dagli anni e dal trucco, si apre in un'espressione di improvvisa sorpresa. Lui, che nel 2002 si poneva dinnanzi la macchina da presa nella speranza di diventare un bambino vero, ora si ritrova a vestire i panni di un padre premuroso. Grazie a Matteo Garrone Roberto Benigni si riprende la propria rivincita sul classico di Collodi. Immerso in un paesaggio umano, poetico, abitato da un popolo povero, straccione, spesso cattivo (e per questo lontano da quell'impianto sublime, colorato e un po' pomposo della sua trasposizione del 2002), il Geppetto di Benigni sembra giocare di sottrazione. Le risate, la mimica gestuale ed espressiva sovraccaricata, tutto viene messo in secondo piano a favore di un amore paterno espresso per abbracci, rincorse e sguardi intensi. In questa favola barocca e visionaria, parente stretta del Racconto dei racconti, Garrone ritrova nella calda ironia toscana, e in quella storia così umana e piena di sogni (ma anche sarcasmo) firmata da Claudio Collodi, un mare in cui lasciare navigare Benigni, immergendolo nel proprio porto sepolto per fargli recuperare sensazioni, passioni e ricordi di una passione per un testo che non intende scemare.
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