Partiamo dal finale, ma senza fare spoiler, e arriviamo poi al concetto di pace, sinonimo di utopia moderna. Una pace sfuggente, inseguita da una protagonista strepitosa. Un film di sentimenti, di cambiamenti, di rivelazioni. Nemmeno a dirlo, diretto da uno dei registi contemporanei più interessante. Ed è proprio Davy Chou, nella nostra intervista, a raccontare gli anfratti più nascosti di Ritorno a Seoul che, dopo il passaggio al cinema, è disponibile nel catalogo streaming di MUBI. Il film, presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2022, racconta di Freddie (Jim-Min Park), una ragazza nata in Corea del Sud ma adottata da genitori francesi.
Come scritto nella recensione, appena compiuti venticinque anni, Freddie si ritrova - per la casualità di un volo cancellato - proprio a Seoul. Qui, inizierà ad avvicinarsi alla cultura coreana, sentendo il bisogno di riappropriarsi delle proprie radici. Come? Mettendosi alla ricerca dei suoi genitori naturali. Nel film, strutturato in un viaggio lungo otto anni, ci sono almeno tre versioni di Freddie, che cambiano di periodo i periodo: "Appena Freddie prende coscienza, diventa un mix tra Trinity di Matrix, Furiosa di Mad Max: Fury Road e Lisabeth Salander di Millennium - Uomini che odiano le donne", spiega Davy Chou. "Ci siamo basati su un universo molto referenziale. Abbiamo girato in ordine cronologico, e quando Jim-Min Park è tornata sul set, effettivamente cambiata, abbiamo pensato: 'wow, ce l'ha fatta!'. Ho adorato questa cosa"
Il finale...
Davy Chou, senza fare spoiler... partiamo dal finale. Era già scritto?
Era tutto scritto. Quello che non è stato scritto è il luogo. In realtà, nella sceneggiatura originaria era ambientato in Algeria, e nessuno ha capito bene perché. Ma io volevo un luogo che non fosse la Francia, che non fosse la Corea. Volevo anche che non fosse l'Asia o l'Europa. E volevo un luogo che conoscevo, perché per me è più facile da filmare, un luogo che avevo già il desiderio di filmare. Ma durante le riprese ci sono stati dei problemi diplomatici tra Francia e Algeria. Così mi è stato chiesto di trovare un altro paese. Ero molto sotto pressione, perché all'epoca ero immerso nel processo di realizzazione del film. Poi ho detto: "Ok, andiamo in Romania". Quindi è stata una scelta un po' casuale, ma alla fine ha dato i suoi frutti, credo. Sono molto soddisfatto.
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Perché ha scelto proprio questa conclusione?
La verità è che ho faticato molto a scrivere la scena finale. Ho lottato molto, perché mi sono reso conto che, in qualche modo, il film mi stava toccando, forse più di quanto avrei immaginato. E poi quando ho capito che in qualche modo è anche la mia storia, ho sentito e capito che il film era intimo. Alla fine non era solo una storia coreana, non solo una storia di adozione, ma la storia di una donna che seguiamo per otto anni e che si chiede, come si chiede il film, cosa serve per essere felici. Il personaggio si chiede, ad esempio, chi è e dove sta andando, qual è il suo posto. Sono domande molto profonde e in qualche modo universali. E quindi ho sentito la responsabilità dello sceneggiatore, del regista. La responsabilità di scrivere la scena finale. Penso che ci sia una forma di chiusura e di riconciliazione alla fine, ma forse non è una grande forma di riconciliazione come quella che siamo abituati a vedere nei film classici, soprattutto in questo tipo di narrazione abituale che riguarda il ricongiungimento con la storia delle radici o la storia di adozione.
Un finale in cui esce fuori l'emozione della protagonista.
È come se fosse sola al mondo, ma almeno decide di non fuggire, ma di confrontarsi con qualcosa che forse è se stessa davanti a quel pianoforte e suona di nuovo, leggendo di nuovo la musica, come se stesse decidendo di capire che va bene non capire tutto e va bene non essere in pace.
I colori di Seoul
Come avete lavorato sulla fotografia? È pazzesca...
Per Ritorno a Seoul abbiamo lavorato molto sui colori. Ci siamo ispirati ai videogiochi, come Grand Theft Auto. Quindi abbiamo spinto molto la saturazione. Quindi, in questo scenario, ho pensato: "No, questo è un film molto più realistico. Non voglio giocare con la virtualità. Quindi quale sarà l'aspetto del film e il rapporto con i colori?". E poi abbiamo deciso di dare alla Corea un'evoluzione che corrisponde all'evoluzione del rapporto tra il personaggio e il suo ambiente. Se si pensa al film diviso in tre parti, la prima è molto più colorata. In realtà corrisponde forse all'innocenza e alla giovinezza del personaggio, a quel tipo di eccitazione che si prova a 25 anni quando si va per la prima volta in un paese come la Corea, dove tutti sognano di andare. Ma nel frattempo c'è anche il caos. E poi, quando si passa alla seconda parte, i colori sono di tipo diverso. C'è un numero minore di colori, ma quello forte, direi che è verde, giallo, nero, e più colori al neon, in realtà, piuttosto che colori nella decorazione. E per me corrisponde allo stato d'animo del personaggio che nella seconda parte sembra aver trovato il suo posto in Corea, è un posto molto specifico, non un posto qualsiasi. E nella terza parte si può notare che il tono del colore è molto meno forte, meno saturo. Marrone e beige. Rispecchia l'aspetto di tranquillità che il personaggio sembra aver raggiunto, fino a quando le cose non deragliano di nuovo.
Possiamo dire che Freddie scopre la Corea insieme a lei?
Credo di essere d'accordo. Voglio dire, il fatto è che ho scoperto la Corea piuttosto tardi, nel 2011, e all'epoca sono andato in una guest house. Ha vissuto un'esperienza simile a quella che ho vissuto io, tranne che per la situazione adottiva. Per questo motivo la realizzazione del film è stata per molti versi anche un gioco di ricreazione della mia esperienza di scoperta della Corea. Non si tratta di immagini, ma di un'esperienza profonda, emotiva. Quindi è un mix di tutto. C'è molto di me stesso che ho messo nel film. C'è molto della storia della mia amica che ha condiviso con me la sua storia.
Il talento di Ji-Min Park
Qual è stata la prima cosa che hai chiesto a Ji-Min Park?
Non ricordo, ma ricordo una storia divertente. Ero un stressato quando stavamo facendo il casting e quando ho deciso di offrirle il ruolo, perché... non era abbastanza francese. Che cosa significa? Significa che Ji-Min Park non è un'adottata, in realtà. È nata in Corea. Si è trasferita in Francia a nove anni con i suoi genitori coreani. Parla ancora perfettamente il coreano. Si considera coreana anche se vive in Francia, ed è ancora molto legata alla cultura coreana. Dunque, ero ossessionato dal dubbio che Ji-Min Park non sembrasse abbastanza francese. Per me, per esempio, chiunque mi incontra dopo un minuto, sa che non sono cresciuto in Asia. È evidente nel modo in cui parlo, nel modo in cui penso, nel modo in cui mi muovo.
Cosa le ha detto?
Ho chiesto a Ji-Min: "Puoi provare a osservare le donne asiatiche francesi a Parigi, guardarle e cercare di imitarle, guardare il modo in cui parlano e così via"? E lei era un po'... contrariata. Voleva lavorare con la sua natura. Lì ho capito che doveva essere rilassata, e che alla fine ci saremmo trovati. E così è stato.
Crede che Freddie troverà mai la pace?
Non lo so. Che cos'è la pace? Le persone dicono di essere in pace con se stesse. Ma spesso mentono inconsciamente. È così facile mentire a se stessi, in realtà...