Ridere con... Garbo!
Con Ninotchka di Ernst Lubitsch la sophisticated comedy raggiunge livelli non più eguagliabili per stile, contenuti e risultati. L'eleganza, la leggerezza e l'ironia del noto Lubitsch touch coinvolge in Ninotchka le caratteristiche più rilevanti della commedia americana (anche quella futura) vista in tutte le sue varie incarnazioni: comedy of remarriage (qui fortemente smembrata: il "marito" ideale di Ninotchka non è altro che il piccolo padre Stalin dal quale si "distaccherà" come da tradizione), commedia brillante, commedia sentimentale e anche un pizzico di melodramma. La sceneggiatura a tre di Charles Brackett, Billy Wilder (tre anni dopo arriverà il suo debutto alla regia) e Walter Reisch, regge a meraviglia il trattamento lubitschiano con il suo pieno di di battute fulminanti e di dialoghi sfavillanti. Ninotchka è un capolavoro di commedia troppo in anticipo sui tempi: su quelli storici (il nazista della stazione che somiglia a Stalin sembra anticipare il patto di non aggressione tra i due) e anche su quelli cinematografici (sconfinata è l'ammirazione per Ninotchka, come per lo stesso Lubitsch, da parte di due grandi registi come Sergio Leone e François Truffaut).
"La Garbo ride!" annunciavano trionfanti i manifesti dell'epoca. Era questo evidentemente l'evento principale che ci si attendeva dalla pellicola. La "divina" che, per la prima volta nella sua carriera di attrice drammatica, ride di gusto dopo aver pianto (e ad aver fatto piangere) coi suoi film precedenti, non era cosa di poco conto. Lubitsch sfrutta (indirettamente) la situazione con abilità modellando il freddo distacco dell'ispettrice russa, giunta a Parigi per affari di Stato, all'inappuntabile nonchalance della Garbo. E' così che il sorriso più esplosivo e più atteso nella storia del cinema può essere strappato grazie ad una situazione banale e scontata, dopo innumerevoli e goffi tentativi: il Conte d'Algout che cade dalla sedia. Un solo buffo movimento che stilizza e comprime anni e anni di commedie slapstick. Si, perché Lubitsch non si accontenta del suo "tocco" ma, come dicevamo, porta a compimento (e con largo anticipo) il lungo percorso intrapreso dalla commedia americana.
I "sofisticati" ambienti della Parigi bene fanno da contrappunto al progressivo disgelo sentimentale di Ninotchka e a quello più immediato (con la memorabile sequenza della porta "apri e chiudi") dei tre "compagni" d'avventura che più macchiette non si potrebbe. L'ebbrezza che seguirà al capitombolo del Conte d'Algout trova un'imprevista fermata in un momento in cui il dramma dell'inganno sembra soggiogare anche noi: il furto dei gioielli. Tutto quello che Lubitsch aveva costruito fino ad allora sembra precipitare di colpo. Ma è un breve attimo sconfessato subito dalla Gran Duchessa Swana (la bravissima Ina Claire) che scongiura i dubbi, nostri e di Ninotchka, sulla figura del Conte. Il film vive di queste continue transizioni sintattiche, visibili ed invisibili, e di questi trabocchetti narrativi che spingono Lubitsch a lanciare una serie di doppie sfide: alla Garbo attrice e alla Garbo Ninotchka, al Conte d'Algout farfallone e al conte d'Algout innamorato, al comunismo oppressivo (oggetto di scoppiettanti gags) e al lato gentile del capitalismo, alla commedia in senso stretto ed alla commedia venata di malinconia (Ninotchkacostretta ad abbandonare Parigi dietro ricatto e il Conte che non ottiene il sospirato visto per la Russia).
Con movimenti di macchina avvolgenti e suadenti, sempre mirati a trascinare lo spettatore verso i personaggi o verso oggetti importanti (la valigia, i cappelli, i gioielli), il regista berlinese lascia comunque libertà d'azione ai suoi attori (formidabile l'interpretazione di Melvyn Douglas nei panni del conte d'Algout). Senza per questo farli tracimare dal suo inconfondibile touch e dal ferratissimo work in progress dei sentimenti e della gioia di vivere che sono alla base stessa (non senza un retrogusto amaro ed ambiguo) delle favolose commedie di Lubitsch.